Tenete presente che l'amore in letteratura è una cosa seria, mica è solo materia da Harmony. Anzi, Marcel Proust per fare a brandelli questo sentimento ha dovuto scrivere migliaia di pagine di Recherche, della quale molti hanno letto solo l'inizio e la citano a sproposito come una celebrazione dell'amore. Al contrario è l'illusione umana artisticamente più potente e più stupida: ha depresso Giacomo Leopardi, ha ucciso Cesare Pavese, ha fatto impazzire me per Selvaggia Lucarelli diventandone lo stalker, che è solo un nome ipocrita per dire amore. E poi si sa che «il sesso è qualcosa di intrinsecamente fascista». Oh bella, dove l'ho letta questa?
È una frase di Quattro etti d'amore, grazie, l'ultimo romanzo di Chiara Gamberale, pubblicato da Mondadori. Che in realtà si regge su una trama semplicissima: due donne che non si conoscono si incontrano e si studiano al supermercato. Una è Erica, impiegata di banca, con una vita coniugale stanca e frustrata; l'altra è Tea, la protagonista della serie televisiva «Testa o Cuore» amata da Erica, e l'una sogna la felicità dell'altra. Per l'impiegata la felicità è nella vita «strana» dell'attrice, per l'attrice è la normalità dell'impiegata, e da qui le due voci parlano a turno, a capitoli alternati. Siccome l'erba del vicino è sempre più verde, figuriamoci l'amore. Il sesso poi, lasciamo perdere, quello del vicino è sempre più hard.
È un libro spumeggiante perché la Gamberale ha una scrittura fresca, giovane, vivace e mai banale anche quando sembra banale: siamo nella narrativa di qualità, che è molto meglio della cattiva letteratura. Per capirci, niente a che vedere con quelle vecchie autrici vanitose da Premio Strega che scrivono con le ragnatele sulle dita tipo la Carofiglio o la Trevi. Tra l'altro Chiara ti butta lì riflessioni e aforismi strepitosi con la leggerezza di una ricetta di Benedetta Parodi. A cominciare dal passaggio dalla passione alla noia, quando si finisce «io e te a letto, nudi. E tu non hai nessuna voglia di me». Da cui si snocciola tutta una serie di domande sulla carne ridotta all'osso finita lì a decomporsi nel cimitero di un letto matrimoniale. Quando ci si ritrova a chiedersi: «Com'è che il sesso se ne va dalle case, com'è che sparisce dalle cose? Chi è che spegne i corpi, la testa, il cuore?». Marcel Proust avrebbe risposto l'abitudine, e più o meno anche Chiara, perché «l'incontro fatale della nostra vita, forse, fa proprio così: prima ci riscatta da tutto quello che da bambini non avevamo, non eravamo. Poi, giorno dopo giorno, ci viene una nostalgia tremenda di tutto quello che avevamo, che eravamo. E quel riscatto ci appare improvvisamente un attentato».
In effetti una delle ossessioni dei romanzi della Gamberale è proprio l'altrove, le case degli altri, la luci accese nel condominio di fronte. E siamo tutti così, per questo viviamo su Facebook, e quando uno non ha Facebook o ti blocca ci domandiamo angosciati «e ora come la spio?». Voyeurista dei sentimenti e vivisezionatrice pop delle quotidianità altrui, Chiara non è ingenua, sa che le favole sono bugie e tradiscono. Perfino Peter Pan è una bella fregatura, soprattutto Wendy, troppo facile «andare sull'Isola che non c'è col biglietto di ritorno». Peter Pan è la favola della morale del romanzo: l'Isola che non c'è non c'è davvero, ma gira e rigira non possiamo fare a meno di desiderarla perché non c'è niente di meglio. Tuttavia «se proprio non sai uscire da un tunnel, arredalo».
Insomma, dall'amore prende forma quel «mostro bicefalo» che è la coppia, perché tanto «tutti credono di essere diversi, un istante prima di diventare identici agli altri». Ha ragione Chiara, e gli scimpanzé sono più evoluti di noi, le femmine non sanno mai chi è il padre, ce ne sono troppi possibili. E dopo la coppia, la famiglia, un mostro ancora più grande e tentacolare: «Guarda le famiglie: ascolta la loro disperazione. Ascolta i loro silenzi. Il rumore sordo delle loro pretese.
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