Se il tuo bisnonno era nero e schiavista

L'avo della quarantenne scrittrice nigeriana cacciava persone per venderle ai bianchi

Se il tuo bisnonno era nero e schiavista

Una storia eccezionale non ha bisogno di essere spiegata e a volte nemmeno commentata: profuma di realtà al punto da rimettere in discussione all'istante stereotipi e pregiudizi. È il caso della storia che la giornalista e scrittrice nigeriana Adaobi Tricia Nwaubani ha raccontato sul New Yorker un mese fa.

Il protagonista è un suo bisnonno, nigeriano, tradizionalista, stimato dalla sua gente al punto che i leader locali facevano a gara per dargli in moglie le figlie (morì con qualche dozzina di consorti a carico), stimato dalla sua gente al punto che presiedeva le corti e sovrintendeva a chiese e scuole. Eppure schiavista per affari. Schiavista per conto della Royal Niger Company, la società mercantile incaricata nel 1879 dal governo inglese del controllo dei territori della Nigeria del Sud che poi divennero Colonia e Protettorato nel 1914 e che conquistarono l'indipendenza nel 1960. Schiavista per denaro, grazie alla licenza che la compagnia, appena insediata, gli concesse perché lui e i suoi agenti catturassero schiavi in tutta la regione e li consegnassero ai mediatori per condurli ai porti di Bonny e Calabar e li vendessero ai mercanti bianchi. Quel denaro e quella licenza erano considerati lavoro onesto e legittimati dall'approvazione della sua famiglia e dal rispetto della società nigeriana. Tanto che Ogogo Oriaku prese il soprannome di «Nwaubani», ovvero «Che viene dalla regione del porto di Bonny». Perché Ogogo aveva la pelle brillante e l'aspetto sano, associati a quel tempo alla gente che viveva vicino alle coste e aveva accesso al cibo migliore.

Sei schiavi di Ogogo vennero seppelliti vivi con lui, quando morì. La famiglia ereditò, fra i tanti beni, le catene che il padre della scrittrice, bambino, provava invano a sollevare. Quando Adaobi aveva otto anni, la portarono a visitare la fila di alberi dove il bisnonno teneva incatenati i corpi grazie ai quali si arricchiva. Ciononostante, quando Adaobi chiese al padre: «Non ti vergogni di lui?», egli, avvocato e attivista per i diritti umani, che ha speso la maggior parte della vita a combattere gli abusi del governo nel Paese, le rispose: «Non potrei mai. Perché dovrei? I suoi affari erano legali a quei tempi e tutti lo rispettavano. Non tutti hanno il coraggio di commerciare in schiavi. Ci vuole un'audacia sconfinata». Un'audacia preesistente, come sappiamo, all'arrivo degli inglesi e di ogni europeo: prima che ne iniziasse il commercio atlantico, gli Igbo, l'etnia di Adaobi, potevano essere schiavi di altri Igbo. Come punizione per i propri crimini, come pagamento dei debiti o come prigionieri di guerra. Potevano muoversi liberamente e possedere beni, ma venivano sacrificati nelle cerimonie o bruciati vivi insieme ai padroni deceduti.

Adaobi Tricia Nwaubani racconta oggi quella storia eccezionale per molte ragioni, che ha un senso esplorare brevemente. La prima è che Nwaubani è diventato il cognome della sua famiglia e i sensi di colpa si fanno sentire: Adaobi vive in Nigeria, ad Abuja, ma va spesso a sud a trovare i suoi a Umujieze, la casa avita, dove è seppellito quel bisnonno che quando era piccola le venne descritto con orgoglio dal padre come «un commerciante rinomato, che trattava frutti della palma ed esseri umani». Pensare che tutto quel che vede è il ricavato della vendita di africani oltreoceano e che un giorno sarà suo, la preoccupa: ovvio che desideri «un nuovo inizio». La seconda ragione è che ancora oggi in Africa uno stigma letale ricade sugli «Ohu», i discendenti degli schiavi che, una volta liberati, entrarono a far parte delle famiglie dei loro padroni come «parenti». Vengono trattati come inferiori, raramente hanno accesso a posti di potere e la pesante eredità viene tenuta segreta alle nuove generazioni, spesso fin dopo l'adolescenza.

L'ultima ragione, ma affatto ultima per importanza, è che questo è il momento giusto per raccontare una storia come quella di Nwaubani Ogogo Oriaku. Sono finiti i tempi in cui l'Africa veniva raccontata soltanto dagli occidentali: ora sono gli africani a raccontarsi attraverso musica, arte, letteratura, ma anche moda, architettura, fotografia e cinema, forti di una nuova autocoscienza, che ha le radici nel territorio e in cui il colonialismo è un'ombra sempre più evanescente. Tanto che se prima la cultura africana ci «ispirava», ora detta i trend, protagonista nella connessione 24/7 e normalizzata nel multiculturalismo grazie - per molti Stati - alla maggiore stabilità interna e a quello che Jonathan Galassi ha chiamato «nuovo internazionalismo consapevole».

Adaobi Tricia Nwaubani, quindi, è una dei tanti intellettuali che sente di dover fare un esame della coscienza africana con spirito libero da pregiudizi e con una urgenza che viene dall'età e dalla formazione. Ha 42 anni, scrive articoli, saggi, romanzi pluripremiati, collabora o ha collaborato con testate come New York Times e Guardian, due anni fa ha scritto insieme a Viviana Mazza Ragazze rubate. Le storie delle ragazze rapite da Boko Haram (Mondadori) e non più tardi dei primi di luglio, nella serie Lettere dall'Africa della BBC, ha spiegato perché il tweet di Macron scritto di ritorno dalla Nigeria andrebbe appoggiato proprio dai nigeriani. «Il 60% della popolazione nigeriana - scriveva Macron - ha meno di 25 anni. Quel 60% non ha assistito alla colonizzazione, proprio come me. Siamo la nuova generazione».

Non sappiamo se la Nwaubani appoggiasse il concetto o la persona. Quel che pare chiaro è che le interessi specificare che dare addosso al colonialismo e concentrarsi soltanto sulle responsabilità dei bianchi non libererà l'Africa dalle proprie responsabilità.

Non tanto e non solo per il passato, ma soprattutto per il presente e per il futuro: Generazione X e Millennial africani sono pronti a esprimere sull'Africa un'idea nuova e la vogliono esprimere dall'Africa, non dall'Europa o dagli Stati Uniti. Forse vale la pena che politici e intellettuali bianchi provino ad ascoltarli.

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