Seurat, ecco il «mostro» con la faccia perbene

Massimiliano Parente

È una domanda ricorrente, che ci poniamo ogni volta che sentiamo di bambini seviziati negli asili: come hanno potuto non accorgersene prima i genitori? Come hanno potuto andare avanti per mesi, per anni senza che nessuno intervenisse? Caso inverso, ancora più difficile, quando un bambino viene maltrattato, o addirittura assassinato dagli stessi genitori: si pensi a uno dei tanti casi di cronaca nera.

Quindi non ci si lasci ingannare dal titolo: ne Il caso Diana, dell'esordiente Alexandre Seurat, un trentenne che è diventato già un caso letterario in Francia (in Italia appena pubblicato da Codice), non c'entra la principessa Diana, se non perché casualmente il nome coincide con quello di una bambina, scomoda perché non desiderata, nata da una relazione non voluta. Una principessa di sei anni che si è schiantata nel tunnel dell'omertà privata e pubblica.

Successo di critica meritato, perché Seurat costruisce una rete polifonica di versioni intorno al delitto: Diana prima scompare, poi viene ritrovata morta in un blocco di cemento. Com'è possibile? Eppure i segni erano visibili non solo nel comportamento anomalo della bambina (è autistica? È ritardata?) ma anche sul corpo: lividi, bruciature, ferite, ciascuna con una giustificazione poco plausibile («ho sbattuto», «sono caduta», «sono goffa», «mi è finito un braccio sotto l'acqua bollente»). Così evidente nello sciagurato senno del poi, sul quale campano i criminologi, e che indica solo la mancanza di un senno del prima.

Con una prosa degna di William Faulkner e ripassata nel frammentismo di cui solo i francesi sono capaci senza dare l'impressione di aver preso una scorciatoia strutturale, il puzzle della storia di Diana va ricostruito attraverso le singole voci dei testimoni: la madre, la zia, la nonna, l'assistente sociale, il poliziotto.

Nessun pietismo nella scrittura, piccoli blocchi scolpiti nella pietra dove ciascuno cerca un bandolo della matassa sentendosi colpevole di aver ignorato troppo. E soprattutto nessun pedofilo sanguinario, figura funzionale a nascondere il lato oscuro della società umana. Perché qui è la famiglia a diventare il vero luogo oscuro del tessuto sociale, impenetrabile agli sguardi, custode di una violenza che viene celata dall'omertà indotta nella stessa vittima, e a causa della cecità degli spettatori.

Ognuno di loro ha una sua versione, tutti sospettavano ma nessuno sapeva, nessuno ha fatto niente per evitare la tragedia. Come succede nella realtà, i veri mostri li abbiamo intorno e si nascondono bene perché agiscono alla luce del sole e non hanno la faccia da mostri ma, come si suol dire, di una famiglia perbene.

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