Shining, il matrimonio fra free jazz e black metal

“International Blackjazz Society”: cosa sarà mai? Una società segreta, una setta, un collettivo di sovversivi? E cosa diamine sarebbe questo blackjazz?

Shining, il matrimonio fra free jazz e black metal

“International Blackjazz Society”: cosa sarà mai? Una società segreta, una setta, un collettivo di sovversivi? E cosa diamine sarebbe questo blackjazz? Non c’è da preoccuparsi se non si conosce questo termine, ci mancherebbe. Bisogna essere addentro a un certo tipo di musica per sapere a cosa si riferisca, per capire che, intanto, non vi è nulla di pericoloso o di misterioso dietro di esso. Soltanto l’affermazione di un’identità, il consolidamento di uno status artistico che nell’ampissimo universo delle sonorità alternative vede già un cospicuo numero di affiliati. Bene, sveliamo l’arcano: “International Blackjazz Society” è il titolo del settimo disco in studio dei norvegesi Shining, collettivo heavy metal che proprio dalla commistione di due universi diversissimi come il jazz e il black metal hanno fatto scaturire una delle miscele soniche più originali degli Anni 2000. L’ultimo disco, uscito il 23 ottobre per l’etichetta indipendente finlandese Spinefarm Records, continua il processo di semplificazione dei canoni di questo “Blackjazz” che dava il titolo all’iconico album del 2010. Per chi già conosce le dinamiche di questo progetto, è facile scorgere il filo conduttore con le opere passate e capire esattamente cos’abbia voluto comunicare la band con l’ultimo lavoro. Ma visto che la masse, comprensibilmente, ignorano cosa vi sia dietro, è giusto fare qualche passo indietro per scoprire da dove arrivi questa musica così strana, alienante, che abbina follia estroversa e un’orecchiabilità di fondo difficile da riscontrare in altre proposte parimenti violente e sperimentali.

Parlare degli Shining significa raccontare soprattutto di Jørgen Munkeby, uno di quegli spiriti liberi e geni purissimi come ne nascono in una percentuale infinitesimale all’interno di una generazione. Classe 1980, inizia fin da bambino a suonare il sax, strumento che diventa ben preso una sua protesi, un tutt’uno con la sua anima e il suo corpo. Dall’età di nove anni, il sassofono diventa per Munkeby il principale mezzo espressivo, quello attraverso cui manifesta tutto il suo amore per la musica; è chiaro fin dall’infanzia che ad essa consacrerà la sua intera esistenza. Negli Anni ’90 la Scandinavia diventa un giardino delle delizie per gli amanti delle sonorità più dure, incompromissorie e destabilizzanti. Munkeby trascorre le ore non solo ad esercitarsi e a carpire i segreti del sax, si mette addirittura a suonarlo in accompagnamento ai dischi di Sepultura, Obituary, Emperor e molti altri della fiorente scena extreme metal dell’epoca. Vuole capire cosa potrebbe accadere se assieme a chitarre elettriche ultra distorte, una batteria suonata a mille all’ora e con cadenze epilettiche, un basso violentato e sporchissime voci gutturali, possa danzare, intromettersi e ululare anche il suo amato strumento a fiato. A sedici anni Munkeby entra negli Jaga Jazzist, collettivo di jazz sperimentale delle sue terre, con cui inizia ad andare in tour, suonare su diversi album e a impratichirsi nell’uso di clarinetto e flauto, oltre a chitarra elettrica e tastiere. In parallelo, continua gli studi a livello accademico e si trasferisce ad Oslo, per studiare alla prestigiosa Norges musikkhøgskole, la massima istituzione musicale norvegese. Qui, nasce il primo nucleo degli Shining, nel 1999: il giovane sassofonista è da poco in città, ha fissato un concerto in una libreria, dimenticandosi che non ha alcuna band ad accompagnarlo. Reclutati in tutta fretta alcuni compagni di corso, che neanche conosce di persona, la prima line-up del gruppo fa il suo esordio all’interno di una libreria della capitale. Il primo concerto prende, stando ai ricordi del leader, una piega più rumorosa del previsto e l’energia che ci mettono i quattro lascia parecchio costernati i presenti. Non li inviteranno più a suonare. Munkeby si rende conto che le cose tra lui e gli altri musicisti funzionano, quindi perché fermarsi? A questo punto, qualsiasi retaggio rock è assente nelle composizioni del quartetto, che cerca di tradurre gli insegnamenti scolastici in una forma di jazz che richiami i grandi del passato ma non ne sia una pedissequa riproposizione. In “Where The Ragged People Go” (2001) e “Sweet Shangai Devil” (2003) gli Shining si producono in un jazz acustico dai tratti sfuggenti, che reinterpreta con buona personalità quanto insegnato da John Coltrane e Ornette Coleman. La svolta è dietro l’angolo, l’anima rock del fondatore sta tornando a galla, così nel 2005 i Nostri rilasciano il fastoso “In The Kingdom Of Kitsch You Will Be A Monster”.

Il gruppo ha ‘scoperto’ l’elettricità, la complessità labirintica del prog rock più ambizioso, ha iniziato a mischiare alla strumentazione ‘classica’ organo, tastiere, sintetizzatori, xilofono, clarinetto. La risultante finale è un’orgiastica babele di dissonanze, ambientazioni alienanti mutuate da compositori moderni come Jean-Pascal Chaigne e Olivier Messiaen, strutture arditamente prog che si dispiegano a velocità sfrenate in turbini sonori violentissimi e schizzati, ondeggiamenti fintamente placidi adagiati su un sostrato sintetico surreale e dal sapore fantascientifico. Qualcuno comincia a drizzare le antenne: gli Shining approdano per la prima volta sui principali magazine di musica alternativa, cartacei e online, e in molti iniziano a chiedersi cosa diavolo sia questa miscela esplosiva, che ha in sé i germi del prog e del jazz, del rock e della fusion, ma poi divaga in tutt’altre direzioni. Altri due anni, e altro gradino salito in termini di creatività e coraggio con “Grindstone” (2007): la complessità e la fuggevolezza di ogni attimo rimangono gli stessi del predecessore, però le armi vengono affilate, la durezza moltiplicata, le intrusioni delle varie sottospecie stilistiche che, una volta ricombinate, conducono a questa nuova tumultuosa e ancora indefinita etnia sonora, prendono un certo qual ordine. Mentre il mondo del metal scopre questa nuova realtà e i connazionali Enslaved decidono di chiamare il gruppo ad aprire nel loro tour europeo, il leader della formazione scopre l’industrial: nel 2006 entra in contatto con “Antichrist Superstar” di Marylin Manson e rimane affascinato dal suono durissimo, sporco ma a suo modo commerciale dell’iconoclasta opera del Reverendo. Apprende che la produzione è stata curata da Sean Beavan, che ha messo le mani in passato anche su alcuni album dei Nine Inch Nails: è il tassello determinante per approdare a una nuova mutazione, quella decisiva per far esplodere il nome Shining su scala internazionale. E visto che critici e fan, nella loro giustificabile ansia di classificare esattamente la musica del gruppo, si prodigano in fantasiose descrizioni e interpretazioni di una musica tanto sfaccettata e multicolore, ci pensano gli Shining stessi a farli dormire tranquilli, intitolando il nuovo album in maniera inequivocabile: “Blackjazz”. Il cambiamento è drastico, quasi una fuga da se stessi e dal proprio passato, una nuova identità che riduce il numero di strumenti utilizzati, adotta un approccio nettamente più feroce e delirante e si permette di sfondare in poco meno di un’ora tutti i confini esistenti fra black metal, free jazz, industrial, noise, progressive, power electronics. Scorribande digitali, vulcaniche eruzioni chitarristiche, vocalizzi sprezzanti sottoposti a filtri vocali di ogni tipo, labirinti ritmici percorsi a velocità esagerate sono solo una parte del menù offerto dagli Shining, che si permettono di cavalcare gli istinti di pura improvvisazione, come di cedere il passo all’orecchiabilità quel tanto che basta per convogliare in vere e proprie canzoni tutto il loro dissennato sapere artistico. Pure il New York Times arriva a celebrare questo manipolo di azzimati artisti, che si presentano dal vivo in modo sobrio ed elegante, in camicia e pantaloni neri, lindi e rassicuranti come tipici rappresentanti della middle-class scandinava. Con “One One One” del 2013 gli Shining avviano un processo di parziale semplificazione e confluenza verso il metal propriamente detto: le canzoni assumono un maggiore ruolo di intrattenimento, alternando magnificamente spezzoni molto ritmici, beat elettronici quasi ballabili e veri e propri ritornelli a scariche ipercinetiche memori del frullato di stili di “Blackjazz”.

Skynny Puppy, John Zorn, Nine Inch Nails, ma anche le interpretazioni meno tradizionaliste del jazz, su tutti Albert Ayler e Pharoah Sanders, hanno pieno accoglimento nelle varie “I Won’t Forget”, “My Dying Drive”, “Blackjazz Rebels” e, complice l’accresciuto grado di fruibilità della proposta, gli Shining entrano di forza nel circuito dei più importanti festival europei. Nel 2015, prima di dare alle stampe il settimo album della carriera, la band si concede l’esperienza mozzafiato di registrare un live direttamente in uno dei punti panoramici più spettacolari d’Europa: lo sperone di roccia a strapiombo sui fiordi di Trolltunga, a 1100m sul livello del mare, nella regione dell'Hordaland in Norvegia. Dopo questa emozionante e sfiancante esperienza, arriviamo ai giorni nostri, con l’ultimo disco finalmente disponibile. “International Blackjazz Society” rappresenta l’opera di più facile lettura fin qui, ma anche quella capace di offrire il ventaglio di scelta più ampio: l’apertura di “The Last Stand” (“Admittance” è una breve intro) rappresenta uno smaccato inno industrial diretto e groovy, mentre già “Burn It All” e “Last Day” riportano la bussola sulla velocità d’esecuzione e l’imprevedibilità, prima di concedere campo libero alle frenetiche distruzioni e ricostruzioni di “Thousand Eyes”, la traccia più complessa e tormentata dell’album. La sorpresa vera la troviamo all’altezza di “House Of Control”, una vera ballata alla maniera degli Shining, con un refrain cantabile a fungere da contraltare all’acido muro chitarristico e una relativa linearità a concedere, per la prima volta in quindici anni, una possibilità di essere capiti anche da chi certi suoni proprio non li digerisce. “International Blackjazz Society” magari non offre l’effetto sorpresa e la massa di idee dei predecessori, configurandosi quale semplice colpo di assestamento. Però la qualità dei pezzi resta altissima e viene esaltata nel contesto live dove, lo ha testimoniato anche il concerto milanese al Lo-Fi il 9 novembre, i cinque norvegesi hanno pochissimi rivali. Per dare l’idea della sensibilità e dello spessore morale di questi musicisti, segnaliamo inoltre che sono stati tra i primi, l’indomani alle stragi di Parigi del 13 novembre, a confermare il loro concerto previsto nella capitale francese la settimana successiva, a Le Divan du Monde. Il comunicato apparso sulla pagina Facebook del gruppo riportava testualmente: “Riteniamo che non dobbiamo dare la possibilità agli idioti che hanno commesso questi atti orribili di condizionare le nostre vite. Pensiamo che la cosa giusta da fare in momenti come questi sia di continuare a vivere liberamente come abbiamo sempre fatto, per provare a noi stessi e a chiunque altro nel mondo che non siamo disposti a restringere la libertà che ci siamo guadagnati”.

Così, mercoledì 18 novembre, in un locale colmo di fan entusiasti e per nulla intimoriti dal clima cupo aleggiante in questi giorni su Parigi, gli Shining, mentre le luci di scena assumevano gli stessi colori della bandiera francese, si permettevano di gridare insieme ai loro sostenitori un gigantesco ‘fuck you’ a ISIS e affini. Perché è anche con la musica di qualità, con la libertà di esprimersi, suonare ed ascoltare quello che più ci garba, che si combatte e vince il terrore.

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