Leïla Slimani spiega che cosa è successo nel 2014, dopo che ha pubblicato il suo primo romanzo, Nel giardino dell'orco: «Alcuni giornalisti francesi non riuscivano a credere che una donna marocchina avesse scritto un libro del genere. Intendevano un libro libero e audace, un libro trash e crudo, che racconta la storia di una donna che soffre di dipendenza sessuale». Slimani è marocchina: nata a Rabat nel 1981, cresciuta con due sorelle «libere, loquaci, indipendenti», da quasi vent'anni vive a Parigi, dove è giornalista, scrittrice e, da qualche tempo, rappresentante della Francofonia nel mondo, nominata dal presidente Macron. E perché proprio una donna del Maghreb potesse scrivere un libro così «audace» Leïla Slimani lo chiarisce nelle prime righe del suo nuovo libro, I racconti del sesso e della menzogna, che esce oggi in Italia (Rizzoli, pagg. 176, euro 18): «Il fatto di vivere o di essere cresciuti in una società in cui la libertà sessuale non esiste fa del sesso un oggetto d'ossessione costante». Questa è la «società della menzogna»: quella che formalmente proibisce perfino un bacio per strada, ma poi è la quinta al mondo per consumo di pornografia on line.
Questi tredici racconti la svelano nel dettaglio, attraverso le voci dei suoi protagonisti: donne, soprattutto, che hanno deciso di parlare con la scrittrice durante il tour di presentazione del suo primo romanzo, e poi in seguito, quando è diventata famosa per avere vinto il premio Goncourt con Ninna Nanna (Rizzoli, 2017). Quasi tutte - dalla studentessa al medico, dalla attivista alla prostituta - indicate con uno pseudonimo, perché confessare i segreti più intimi, in Marocco, può essere molto rischioso. Penalmente perseguibile: due anni di carcere per chi fa sesso fuori dal matrimonio, divieto di aborto (tranne in caso di stupro; e tranne nel caso in cui si sia poi costrette a sposare lo stupratore, per rimediare). Il quadretto è semplice: «Se ci attenessimo alla legge vigente e alla morale dominante, dovremmo ritenere che tutte le donne single in Marocco siano vergini. Che tutti i ragazzi e tutte le ragazze - che rappresentano oltre metà della popolazione - non abbiano mai avuto rapporti sessuali. Convivenza, omosessualità, prostituzione e via dicendo non esisterebbero». Esistono eccome. Zhor, single, 28 anni, di famiglia umile e ultraconservatrice, racconta: «Ho frequentato una scuola femminile in cui si parlava moltissimo di sesso. La pornografia era dappertutto (...) All'università ho vissuto in uno studentato. È stato parecchio istruttivo. Mi sono resa conto che tutti, e dico tutti, fanno sesso. Anche le ragazze interamente velate lo fanno. L'importante è essere discrete, non ammetterlo mai in pubblico». C'è anche un hadith a cui rifarsi: «Se cadete in tentazione, fatelo con discrezione». Una cosa è lo spazio pubblico, un'altra quello privato. E se si mescolano può accadere, come è accaduto, che una vedova e un uomo sposato, più che sessantenni, vengano sorpresi in «atteggiamenti intimi» in automobile, sulla spiaggia, e siano arrestati. E poi si scopra che sono due severissimi membri della frangia più conservatrice del Partito giustizia e sviluppo, che in pubblico hanno sempre condannato la «lussuria», il «vizio», la «depravazione». L'ipocrisia è svelata sotto gli occhi di tutti, ma «sarebbe un errore - scrive Slimani - ignorare la tragedia che si nasconde dietro questa vicenda farsesca». Una banalità: in Marocco, chi non è sposato non può fare sesso, e non ha luoghi per farlo (ecco perché la macchina sulla spiaggia). E ancora: «I due islamisti hanno vissuto sulla propria pelle l'arbitrio e l'umiliazione». L'arbitrio della polizia, che di solito chiude un occhio in cambio di soldi; l'umiliazione della propria intimità sbandierata e giudicata in pubblico; l'arresto.
Malika, medico (che spesso si trova a firmare certificati di verginità per future spose), single, racconta come il suo ex fidanzato, «molto aperto, molto moderno», si vantasse di frequentare prostitute: «È un mio diritto, ho il diritto di scopare e di sposare una donna vergine». Gli uomini hanno un menu «alla carta»: le donne da sposare, e quelle con cui andare a letto... Quelle da sposare, si capisce, sono quelle intatte (o con l'imene ricostruito ad hoc). Ma «il culto della purezza è violenza», come spiega Nabil Ayouch, regista del film Much Loved, proibito in patria perché «in Marocco, se qualcuno ti mostra il tuo riflesso, tu rompi lo specchio». Il riflesso è questo: «Il corpo della donna resta appannaggio del gruppo. Prima di essere un individuo, la donna è una madre, una sorella, una moglie, una figlia. È la garante dell'onore familiare e, peggio, dell'identità nazionale. La sua virtù è una questione pubblica». Però le donne di questi Racconti non sono vittime, «si inventano spazi d'amore e sessualità», di parola e di protesta. Anche nel silenzio, che spesso attraversa anche lo spazio privato: lo racconta bene un'altra donna, l'egiziana Yasmine El Rashidi, editorialista della New York Review of Books, nella sua Cronaca di un'ultima estate (Bollati Boringhieri, pagg. 150, euro 16,50, presentazione a Tempo di Libri, venerdì 9, ore 18), storia «familiare» degli ultimi trentacinque anni dell'Egitto attraverso rivoluzioni riuscite, mancate e fallite.
Dopo le molestie sessuali a Colonia nel Capodanno 2016, Kamel Daoud ha scritto che il mondo arabo è inquinato dalla miseria sessuale; che la frustrazione schiaccia i giovani e questa genera esplosioni di violenza nei confronti delle donne. È stato accusato «di diffondere cliché orientalisti e di stigmatizzare l'intera popolazione araba». Sono le stesse critiche a cui va incontro Leïla Slimani quando racconta le donne e le contraddizioni del suo Paese: «Mi accusano di essere islamofoba per opportunismo, di non rispettare i valori conservatori del Marocco e - argomento principe - di essermi venduta all'Occidente». Slimani sa che cosa rispondere: «Il problema non è né identitario né morale, ma piuttosto politico.
Se i musulmani non hanno diritti sessuali è perché la maggior parte dei regimi in cui vivono si basa sulla negazione delle libertà individuali». Perché quello di pensare con la propria testa è «il tabù più ingombrante di tutti».
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