Tra i critici letterari di questo Paese, Raffaele Manica è certamente uno dei più fedeli, se non il più fedele, a un'idea di critica, e di letteratura più in generale, novecentesca. Ma non si pensi a un difetto, è invece vero il contrario. Il novecentismo di Manica, che ha le sue radici in saggisti pure molto diversi tra loro come Giacomo Debenedetti, Gianfranco Contini, Sergio Solmi, Luigi Baldacci e, ancora prima, Roberto Longhi, è quella particolare forma di fedeltà a una letteratura che è nel momento in cui si fa, e si fa nel momento in cui la si scopre. Bisogna leggere il trittico di libri che dedica al Novecento italiano La prosa nascosta (Avagliano, 2002), Exit Novecento (Gaffi, 2007) e Qualcosa del passato (Gaffi, 2008) , ma anche i suoi lunghi articoli su Alias, o ancora le due introduzioni che ha dedicato a Enzo Siciliano e Alberto Arbasino nella collana dei Meridiani Mondadori, per cercare le tracce di una ricerca che, apparentemente per caso, trova una profonda necessità. Il suo modo di procedere sembra il camminamento di chi è pronto a cogliere ogni segno che giustifichi la ragione (la causa) di quella ricerca. E, nel frattempo, ha fatto in modo che il bagaglio, invece che svuotarsi, abbia accumulato tutte le prove indispensabili affinché l'incontro che attendeva sveli un nuovo modo di vedere. Per questo Manica fa dell'opera d'arte uno strumento di conoscenza della realtà attraverso il quale pare sia la stessa natura umana a svelarsi.
Si percepisce, nel suo lavoro critico, la volontà di non distinguere il critico dal narratore. Come se scrittori fossero entrambi e in egual misura. È così?
«Differente è lo scopo che ci si prefigge, ma in entrambi i casi va fatta salva la qualità di scrittura. Non è dato riconoscere grande critico che non sia identificabile con un suo ben definito tono di scrittura, con uno stile che ne contraddistingua la personalità, il modo di atteggiarsi verso le cose, il pensiero. Lo stile non è mai elemento accessorio, ma è esso stesso elemento di conoscenza. In ciò, il critico o, come preferisco, il saggista è prossimo alla poesia: ha bisogno di condensazione, di scorci ad alto tasso di significazione. Talvolta perfino di immagini».
Il Novecento, come più di qualcuno ha sostenuto, è stato il secolo della critica. Dai critici dello scorso secolo non solo abbiamo imparato a leggere ma addirittura a scrivere?
«Il Novecento forse è stato il secolo della critica, ma non mancano certo esempi di strepitosi romanzi e figure di grandissimi poeti: basti pensare, in Italia, a quello stretto giro di anni che va dal 1923 della Coscienza Zeno di Svevo al 1926 degli Ossi di seppia di Montale al 1929 degli Indifferenti di Moravia. Lì si segna un cambiamento epocale, nascono il romanzo e la poesia moderni nella nostra lingua. Il paesaggio così vario della prosa di Gadda, Landolfi, Comisso, Bilenchi; i romanzi diversissimi di Soldati, Tomasi di Lampedusa, D'Arrigo; il vario genio di Palazzeschi e Savinio e Bontempelli. E, verso di noi, Fenoglio, Parise, Calvino, Ottieri, Volponi e chissà quanti (a cominciare dal sempre troppo trascurato Quarantotti Gambini)... Arbasino e La Capria... E la ricchezza della poesia, da Montale e Ungaretti a Penna fino a Pasolini, Caproni e Fortini, Pagliarani e Zanzotto: una vicenda di prim'ordine. Ed è un fatto che molti di costoro sono stati anche saggisti insigni: ciò ha contribuito alla loro qualità di scrittura».
Questo suo sguardo al «passato prossimo», non mi pare appartenga a un sentimento nostalgico. La critica, allora, non è una forma di conservazione museale ma qualcosa di radicato nella vita?
«La critica o la saggistica nasce dall'esperienza di lettura e di vita, dal confronto con territori contigui alla letteratura e diventa di nuovo letteratura. Dà conto di un campo di forze contrastanti delle quali cerca la risultante, come nella fisica più elementare. È uno scrivere di sponda, come certi colpi al bigliardo, che colpisce da una parte per andare da un'altra parte o semplicemente, come in una vecchia canzone di Jannacci, per vedere l'effetto che fa. Il saggista vero non sa realmente come andrà a finire un saggio che ha appena iniziato. Si scrive un saggio per saperlo, per sapere che cosa sarà e che cosa si sta pensando in quel momento (ancora un moto simile a quello della poesia). Poi, certo, c'è una retorica, ovvero un'organizzazione di questo pensiero. Ma il risultato può talvolta essere sorprendente innanzitutto per chi scrive: è il senso del meta-saggio del Lukács giovane intitolato Lettera a Leo Popper in un libro che si intitola L'anima e le forme. Ecco, come in poesia, anche nel saggio occorre parlare di forma, come in musica con la sonata, come in poesia con l'ode o il sonetto... Una forma da ricreare in continuazione, che ha una sua vita nell'assomigliare alla vita. Niente museo, ben sapendo dell'importanza che hanno i musei: ma si tratta di un altro mestiere».
In Exit Novecento ha scritto che il saggio è un «assedio interrogativo alla vita e al libro». La critica è, per così dire, un modo di stare al mondo?
«Per me è così, ma certo in maniera inquieta e controversa: non si tratta di iscriversi a un albo, non è uno stato anagrafico e nemmeno una categoria riconoscibile per il fisco. È un modo per stare al mondo, sì, ma vorrei che si percepisse l'affermazione sottraendole ogni possibilità di enfasi, che nelle mie intenzioni non c'è. Si tratta di essere in un posto che si presume non sia stato frequentato prima, almeno in quel modo; si tratta di essere un po' marginali o laterali, ritrovando nei margini e nella lateralità un nuovo centro, come tentando di colpire un bersaglio che si sposta in continuazione, o tenendo gli occhi in movimento come quando si tenta di fissare un punto del paesaggio mentre il treno corre. Dimostrare tesi è cosa che può essere importante, ma riguarda soprattutto lo scrivere accademico (sempre meno però). L'accertamento e la suggestione purché con una sua propria necessità sono modi paradossali di interrogare ancora, con molta perplessità, proprio là dove altri vedono già risposte».
Oggi la critica pare sempre più delegittimata, come dovesse giustificare la sua necessità d'esistenza. Quale patto si è spezzato? E la critica quali responsabilità ha se ne ha?
«Dal mio punto di vista, in generale, nulla o nessuno deve giustificare la propria esistenza. L'apparente delegittimazione ha ragioni storiche ben note: fine della civiltà delle riviste, mutamento della terza pagine, cambiamento dei rapporti tra editoria e informazione: si sa. Si è rotto un sistema, non so se un patto. Al più direi che una critica inutilmente oscura e complicata e algida ha qualche responsabilità, ma non mi pare che il discorso riguardi tutta la critica. Chi vuole sa dove trovarla: è solo un peccato e non solo per la critica, ma per i giornali e per i lettori non trovarla bene in vista. Giunto ai miei anni non me ne cruccio più. Anzi vedo lì un punto di forza, proprio a causa di quella insoddisfazione che dicevo prima».
Lei è anche uno dei direttori del trimestrale Nuovi Argomenti.
Fino a qualche tempo fa ad emergere dalla rivista erano sia critici sia narratori (e poeti), ora mi sembra che i narratori siano un numero molto più cospicuo. Se è così, quale significato ha?«È molto difficile trovare critici o saggisti anche di medie qualità. È solo questo. Dunque è ciò che Lei dice nella sua ultima domanda».
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