Cultura e Spettacoli

Le sovvenzioni alla cultura? Roba da far venire l'infarto

Un saggio a più mani riapre il dibattito sui fondi pubblici all'arte e spettacolo. L'editore De Michelis: "Avantaggiate enclave clientelari e poco interessanti"

Le sovvenzioni alla cultura? Roba da far venire l'infarto

Gli infarti culturali provocano dimissioni nelle persone oneste. A marzo scorso l'editore tedesco Albrecht Knaus pubblicò - appunto - L'infarto culturale. Troppo di tutto e ovunque lo stesso. Una polemica sulla politica culturale, la cultura di Stato e le sovvenzioni (288 pagine, 19,99 euro, c'è anche l'edizione Kindle. Da noi uscirà per Marsilio a metà novembre). Si tratta di un saggio a otto mani scritto da Pius Knüsel, allora a capo di Pro Helvetia, fondazione svizzera di promozione e finanziamento di progetti culturali, Armin Klein, Stephan Opitz, Dieter Haselbach. Der Spiegel, la rivista politica più importante della Germania, aveva già anticipato l'uscita con un riassunto scritto dagli stessi autori. Ci furono due mesi di accesissime polemiche. «Solo alcuni critici lessero con attenzione il libro - ci dice Pius Knüsel - e avviarono un preciso dibattito. La maggior parte ripeté quello che aveva sentito. E che cosa aveva sentito? Che i quattro autori di Kulturinfarkt volevano ridurre i fondi per la cultura del 50%. Questo è stato il fraintendimento più infame, poiché fece di noi, fin dal primo istante, dei nemici della cultura. In realtà avevamo suggerito di ridurre della metà il numero di istituzioni culturali e di usare il denaro per il settore informale, la piccola industria creativa e per un'istruzione veramente multiculturale».
E si sa come vanno le cose, quando i media si riempiono la bocca di aria. A Pius Knüsel, che dirigeva Pro Helvetia dal 2002, toccò dimettersi (tra pochi giorni, a fine settembre, le dimissioni saranno effettive). E fu nuova polemica. Alcune testate sostennero che era un semplice avvicendamento, dopo un lungo periodo al timone, altre insinuarono che l'uscita del saggio aveva provocato violente fratture all'interno dell'organizzazione. Knüsel fu tranchant. Dichiarò: «Non mi dimetto a causa di Kulturinfarkt». E tacque. Almeno fino a ieri, quando l'abbiamo rintracciato chiedendo maggiori spiegazioni. «In realtà, avrei potuto rimanere a capo di Pro Helvetia con competenze addirittura maggiori grazie alla nuova legge sulla promozione della cultura. Tuttavia divenne chiaro che avrei dovuto vivere a due velocità: la velocità di un approccio critico al modo attuale di fare politica culturale e la velocità di Pro Helvetia, incentrata sull'integrazione della maggior parte degli attori, con la propria cultura organizzativa e con tempi lunghi per i cambiamenti. Era come stare in piedi su due treni che viaggiavano a velocità diverse. Prima o poi sarebbe venuto il momento di lasciarne uno». Insomma, meglio andare scalzi che tenere i piedi in due scarpe (naturalmente questo, in Italia, sarebbe inconcepibile).
Allarghiamo ora il discorso, dal momento che Kulturinfarkt si riferisce a quel che accade trans-nazionalmente in gran parte del Vecchio Mondo (tant'è che sarà uno dei titoli di punta al Salone europeo della cultura, a Venezia, dal 23 al 25 novembre). Cosa ha scatenato i feroci polemisti tedeschi? «Il fatto che il saggio - ci spiega Cesare De Michelis, presidente di Marsilio - scoperchia un'intera ideologia che perdura dalla Rivoluzione francese e che negli ultimi decenni si è pervertita in una abnorme struttura legislativa adatta a tenere in vita, una vita molto dispendiosa, enclave culturali non solo clientelari, ma purtroppo anche pochissimo interessanti. Gente che dice al pubblico: ora mettete le mani sui banchi che vi spieghiamo noi cos'è la cultura. E giù finanziamenti statali, come determinazione a priori di una volontà politica. Un metodo giacobino. Do soldi a Strehler ma non a Wanda Osiris, è meglio Shakespeare di Arthur Miller, e via così. Non si tiene conto del consenso. Nel 1789 questo illuminismo poteva essere utile a educare un popolo mantenuto nella schiavitù per secoli, oggi che nemmeno più la gratuità è più appannaggio dello Stato, perché l'accesso all'arte ognuno se lo fa da sé, in genere pagandoselo, le sovvenzioni sono al minimo mal dirette. Come se gli ospedali, anziché curare i malati, decidessero di che malattia dobbiamo ammalarci». Di fatto, se dopo un taglio di fondi del 30-40% non un solo ente lirico italiano è fallito, cosa dedurne? Se Jeff Koons o Damien Hirst vendono a milioni di dollari le loro opere, ha senso finanziarne le mostre? «Se lo Stato vuol fare davvero qualcosa per la cultura - aggiunge De Michelis - abbassi la soglia di remuneratività degli eventi. Non li sovvenzioni, non anticipi soldi, ma faccia detassazione sui biglietti».
E i «poveri» artisti, chi li manterrà? Già a metà degli Ottanta, Thomas Bernhard non aveva nessun dubbio: «Se uno dipende da qualcosa lo si nota in ogni frase. La dipendenza lo paralizza. Agli artisti non bisogna dargli niente, bisogna buttarli fuori. Quando uno sta sempre solo ad osservare in Tv come si fanno i muscoli, ma non fa nulla - con le sovvenzioni è esattamente la stessa cosa - diventa fiacco.

Quando invece deve fare da sé, col proprio lavoro, diventa forte».

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