Spettacoli

Santi Licheri era l’unico giudice d’Italia di cui nessuno aveva paura. Eppure riusciva a radunare casalinghe e pensionati, studenti in malattia, dopolavoristi, il popolo che si apprestava al pranzo quotidiano e aspettava, curioso, il verdetto, come ai tempi antichi di Raymond Burr nell’arte Perry Mason, l’avvocato che intuiva tutto, ancor prima che il reato venisse consumato.
Mentre si stendeva la tovaglia e si versava lo spaghetto nell’acqua bollente, arrivava quella voce, piccola, a volte incomprensibile: «Prego accomodatevi». Era l’invito ai contendenti nell’aula di Forum, il tribunale televisivo e del tinello di casa, nessuna immagine di faldoni polverosi, nessun odore di muffa e di stantio come accade nei palazzi di giustizia di ogni dove, niente urla strazianti e lacrime disperate, piuttosto beghe di cortile trasformate in contenzioso aulico dal giudice, quasi nascosto, per statura e scelta discreta, dietro le sue carte, sbirciando, ogni tanto, con un veloce movimento degli occhi, i due litiganti.
Santi Licheri recitava benissimo la sua parte di giudice, avendola frequentata per anni, dall’altro secolo in poi, mica con le telecamere, il trucco e il parrucco ma in diretta vera, senza intervalli di pubblicità semmai con gli strilli degli imputati e con i codici da una parte e martelletto, detto gavello, in una mano per sancire la sentenza e mandare al gabbio il colpevole.
Santi è un’alterazione di Santo, non so se suo padre, magistrato, gli consegnò questo nome in rispetto del giurista siciliano Santi Romano, in verità siamo nell’aprile del Diciotto, la comunicazione non viaggiava rapida e feroce come oggi, Santo fu subito Santi, come anche capita nell’onomastica spagnola e sarda. I Licheri erano un bel gruppo, una dozzina, secondo quello che riferiscono le gazzette: padre, madre, figli dieci, secondo usi e costumi del tempo; il paese di nascita è Ghilarzo, che è poi il centro della Sardegna, nella terra di Oristano. La cronaca di oggi diventa storia di quel paese e poi di una fetta grande d’Italia, del diritto e della televisione. Santi, va da sé, studia giurisprudenza, detta brevemente «legge», si laurea con la lode, passa dall’isola alla capitale, la guerra lo costringe a vivere in clandestinità sotto il nome e cognome di Franco Rossi, professa l’avvocatura ma sceglie la carriera di magistrato, il suo cursus honorum lo porta a essere Sostituto Procuratore e quindi Pubblico Ministero di corte d’Assise, viaggia verso il Nord, da Massa a Genova e a quarant’anni entra nel Consiglio Superiore della Magistratura. È poi magistrato di corte d’Appello, preside di corte d’Assise e decide quindi di tornare a fare l’avvocato civilista. Poi presidente aggiunto onorario della Corte di cassazione.
La televisione è un semplice modo di fare comunicazione, la giustizia non è ancora argomento di dibattito se non nei telefilm in bianco e nero. Licheri non può immaginare che a sessantadue anni, per una raccomandazione lecita, di suo figlio scenografo a un produttore di Fininvest, sarebbe incominciata un’altra fetta importante della sua vita, la fase didattica e popolare della sua carriera.
Con lui nasce Forum, il format è americano, l’anno è il millenovecentoottantacinque, su Canale 5 spunta anche il faccione di Pasquale Africano, la guardia giurata, Catherine Spaak presenta, Licheri sentenzia. Il motivo del contendere è ampio e variegato, si va dalle liti condominiali alle cause di eredità, si discute di lavoro e di corna, di animali e di contratti, l’Italia si divide, come sempre, davanti ai contendenti, si fa il tifo per la moglie tradita e per il lavoratore licenziato, Santi Licheri ascolta, interrompe, interviene, corregge, non pontifica, spiega, illustra, cita, allude, scherza, insomma è tutti noi, è il sogno realizzato, all’ora del pranzo, di farsi gli affari degli altri e di giudicarli; lui, togato, con il codice e il martelletto, noi, gli spettatori, con il mestolo e la forchetta.
In un Paese di giustizia spettacolare e di spettacolo dei giudici, Santi Licheri ha rappresentato e interpretato la normalità, dunque l’impresa più difficile. Ha riportato la legge alla sua dimensione umana e non patibolare, ha ridato agli italiani il senso di giustizia confuso con quello del giustizialismo, ha usato la tivvù non per farsi pubblicità e correre verso un seggio politico ma per spiegare che cosa ci sta scritto nel codice; è stato, per l’insegnamento del diritto (agli analfabeti dello stesso), il maestro Manzi di Non è mai troppo tardi. Per venticinque anni è stato il ripasso quotidiano di norme, regolamenti, commi di cui neppure conoscevamo l’esistenza, ha citato testi latini e detti popolari nostrani. A volte era difficile comprendere tutte le parole del suo eloquio, così si era prestato ad alcune irriverenti imitazioni cabarettistiche e, pure, ai cialtroni di Scherzi a parte.

Si è divertito laddove gli altri si esaltano, ha avuto il piacere di rilasciare un’intervista nella quale, all’età di anni novanta, dichiarava di frequentare ancora l’arte amorosa, con la moglie nel rispetto della legge, non ricorrendo a pastiglie blu «che fanno male».
Se ne è andato, silenziosamente, nel giorno della festa. La seduta è tolta.

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