Quando Indro Montanelli, quarantasei anni fa, il 25 giugno 1974, fondò il Giornale sapeva bene di essere controcorrente. Quando, poi, scrisse con Mario Cervi L'Italia degli anni di piombo, si soffermò in più pagine sulla nascita della sua creatura rivendicandone proprio la consapevole natura anticonformista che ne faceva una voce fuori dal coro: «Degli anni di piombo noi non siamo stati spettatori neutrali. Fondammo un giornale apposta per intervenirvi, e l'abbiamo fatto giorno dopo giorno, con quanta più incisività potevamo, e da posizioni in pieno contrasto con quelle assunte, più o meno scopertamente, da quasi tutta l'altra stampa, quotidiana e periodica, nazionale. Fu una battaglia dura e difficile, che ci ha lasciato addosso parecchie cicatrici, e non parlo soltanto di quelle materiali. Per tutti gli anni Settanta, e per i primi Ottanta, noi fummo indicati alla pubblica esecrazione come i fascisti, i golpisti, in una parola i lebbrosi. E forse saremmo ancora nel ghetto in cui ci avevano relegato, se a trarcene fuori dandoci completa ragione non fossero sopravvenuti i fatti».
Parole vere che Sergio Romano, nella Premessa al testo edito anni fa nelle edizioni del Corriere della Sera, avvalorava sottolineando che il quotidiano di Montanelli non è stato semplicemente un organo di stampa impegnato a fare la cronaca di un Paese «che sembrava incapace di rientrare nella normalità» ma «un protagonista» che alcuni vedevano come un reazionario e altri come una luce. Ecco perché, dice l'ex ambasciatore Romano, «l'attentato contro Montanelli a Milano nel giugno del 1977 fu per questa ragione diverso da quelli che colpirono nello stesso periodo altri giornalisti». I terroristi colpendo Montanelli vollero colpire proprio il Giornale come voce fuori dal coro. Non a caso il grande giornalista di Fucecchio, rispondendo a Eugenio Scalfari su quanto scrisse nel libro La sera andavamo in via Veneto, disse che gli obiettivi de la Repubblica e de il Giornale erano diversi e se il primo aveva raggiunto i suoi in termini di diffusione, il secondo aveva tenuto fede ai suoi ideali: «Si trattava di dare speranza e rappresentanza a quegli Italiani spauriti che assistevano con sgomento alla protervia estremista, alla crescita del terrorismo, e insieme alla rassegnazione o alla fuga in campo avverso di chi avrebbe dovuto battersi per impedire questo degrado. Quegli Italiani ebbero voce nel Giornale, e l'ebbero nei commenti che il direttore e i redattori del Giornale facevano da Telemontecarlo. Articoli e commenti che ricalcano quelli d'allora sul Giornale e su Telemontecarlo, li leggiamo e ascoltiamo, ora, dovunque. Ora che non espongono più a nessun rischio».
Insomma, Montanelli è stato un uomo di libertà che ha difeso a suo rischio e pericolo il valore più alto, che a tutti è Giove, quando la libertà era offesa e tradita da chi avrebbe dovuto difenderla. La sua creatura ha ereditato il carattere anticonformista del padre, come si può capire leggendo il libro del giovane studioso liberale Federico Bini: Montanelli e il suo Giornale (edito da l'Universale). Un testo formato da interviste ai protagonisti di ieri e di oggi come Gian Galeazzo Biazzi Vergani ed Enzo Bettiza, Giorgio Torelli ed Alfio Caruso, Roberto Gervaso e Livio Caputo, Fedele Confalonieri e Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro e Alessandro Sallusti e tanti altri. L'intervista più bella è senz'altro quella a Gervaso Robertino, come lo chiamava Montanelli perché si tratteggia anche un Montanelli privato, intimo, forte delle sue debolezze (perché tutti hanno debolezze).
Ma c'è, in un passo in cui si parla dell'Italia come nazione mancata, questa frase del giornalista da poco scomparso: «Mentre in Francia il cattolico è laico, in Italia non è laico nemmeno il laico. Gli italiani sono un popolo che non crede in niente». Amara come la verità. Tuttavia, chi difende la libertà lo fa per precisa scelta di civiltà affinché gli uomini, con fede o senza fede, possano essere liberi di errare. Si capisce, allora, perché oggi Montanelli sia stato trattato, per usare il suo stesso vocabolo, come un lebbroso e sia stata aggredita la sua statua: perché quando una nazione è in decadenza non solo si fatica a riconoscere ciò che vale ma ciò che vale è disprezzato per non essere riconoscenti.
La bella intervista con Gervaso «Montanelli mi considerava un suo figlio» andrebbe letta in parallelo con il Poscritto che Montanelli volle pubblicare in coda a L'Italia dell'Ulivo in cui dice che il rapporto tra il potere e gli italiani va riconsiderato in quanto non è il primo che corrompe i secondi ma, all'inverso, sono gli italiani che corrompono il potere fino a renderlo inutile e un «sistema di mafie».
Ciò accade perché, spiega Montanelli, la cultura non si è mai resa indipendente e ha solo sostituito il Principe con il Partito: «Rimarremo quello che siamo: un conglomerato impegnato a discutere, con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giuochi di potere e d'interesse. L'Italia è finita». Il ritratto perfetto dell'Italia di Giuseppe Conte.
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