La storia tremenda delle sorelle Napoli vittime della Mafia

Luca Fazzo

Cosa accade se un giorno nella Sicilia profonda, quella lontana dai riflettori, fa irruzione con tutta la sua potenza la macchina del giornalismo investigativo? Se nell'ignavia del fatalismo e della complicità tre donne sole portano invece la loro battaglia alla luce dei riflettori? Il luogo comune direbbe: i buoni vincono, i cattivi battono in ritirata, la nobile arte dell'informazione trionfa sul malaffare e l'omertà.

E invece no. Le dannate di Massimo Giletti (Mondadori) non è una storia a lieto fine. Perché la sorte di Marianna, Gioacchina e Irene Napoli, le tre sorelle di Mezzojuso che hanno rifiutato di obbedire alla mafia e di farsi portare via l'azienda agricola, è ancora tutta da scrivere. «Come finirà? Che prima o poi gliela faranno pagare», dice crudamente un testimone della tragedia. Forse è un eccesso di pessimismo. Di sicuro è che contro le Napoli, anche dopo che l'inchiesta giornalistica ha scosso le acque, continua a muoversi un intreccio di poter forti fatto da sindaci targati Pd, ex generali dei carabinieri, rampolli conclamati di mafia. Tutti intenti a dipingere le tre Napoli come pazze o approfittatrici, e Giletti come uno spregiudicato cacciatore di share.

I volti delle tre Napoli sono diventati familiari agli spettatori di Non è l'Arena, il programma di Giletti che per un anno ha martellato in modo quasi ossessivo sulla loro storia. Il libro di storia ne racconta un'altra: perché cala il calvario delle Napoli nel contesto della Sicilia di ieri e di oggi, dove la mafia dei campieri analizzata da Carlo Alberto Dalla Chiesa si evolve fino al business dell'eolico, delle pale disseminate in ogni dove, delle truffe all'Unione Europea. Nuova negli obiettivi, tradizionale nei mezzi: Beethoven, il pastore maremmano che le Napoli trovano scuoiato tornano un giorno sulla loro terra, è l'erede della giumenta che cinquant'anni prima, sempre a Mezzojuso, venne impiccata a Giuseppe Muscarella, anche lui colpevole di essersi ribellato ai clan del posto. Poche settimane dopo, a finire ammazzato fu Muscarella.

Mezzojuso non è famosa in tutto il mondo come invece Corleone, che con essa confina, che ha dato i natali a Riina e a Provenzano, ed eppure ha al suo interno una coscienza civile, una comunità che si è ribellata. Nella tranquilla Mezzojuso, invece, la coscienza civile nel libro di Giletti è la grande assente. Le pagine più angoscianti non sono quelle che raccontano la persecuzione delle Napoli, con le irruzioni ripetute delle bestie a rovinare i raccolti; sono i capitoli che raccontano come di fronte all'esplodere dello scandalo l'intero paese si sia schierato non con le tre sorelle ma contro di loro, in nome del «buon nome» di Mezzojuso. Il buon nome di un paese dove il padrino, don Cola Labarbera, è vissuto indisturbato per cinque sesti della sua vita, e qui ha potuto ospitare senza rischi la latitanza di Bernardo Provenzano.

Nei giorni scorsi, il ministro Salvini ha inviato gli ispettori a Mezzojuso per scoprire se, davvero, il sindaco andò ai funerali di don Cola. A volte, incredibilmente, le inchieste giornalistiche servono ancora a qualcosa.

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