Per le strade di Istanbul fra gli "inutili" di Sait Faik

Un'umanità miserabile cerca di sopravvivere: è il mondo dell'autore che ha "rinunciato a se stesso"

Per le strade di Istanbul fra gli "inutili" di Sait Faik

Sono un amante dei racconti, e quelli di Sait Faik Abasyank sono tra i più belli che mi sia capitato di leggere, alla pari di quelli di Kafka, Dürrenmatt, o Cechov, al quale è stato spesso paragonato per la sua attenzione al popolo minuto, indolente e fatalmente condannato dalla viltà della miseria, ma sono confronti senza ragione. Perché Sait Faik, scrittore turco nato nel 1906 e morto di cirrosi epatica nel 1954, dopo un'esistenza da splendido perdigiorno, allergico a qualsiasi stabilità, con gli occhi sempre lucidi per le copiose bevute di raki, si è conquistato il diritto di essere un imparagonabile. Chi compirà il gesto per lui salvifico di acquistare Un uomo inutile (Adelphi, pagg. 263, euro 19), da poco uscito, raccolta dei suoi maggiori racconti - ne scrisse tantissimi, tutti di poche pagine, ciascuno una piccola fiaba stambuliota perfettamente conchiusa - scoprirà un mondo a cavallo tra i sobborghi occidentali e le taverne, i caffè, i casini, le valli di viole e i giardini di neve «incline al viola» di una Istanbul che oggi certamente è scomparsa, ma che allora rifletteva ancora la magia di un brulicare cosmopolita di turchi, greci, armeni, albanesi, tutti impegnati a sopravvivere con i più vari stratagemmi, mostrando insieme la più fiera bestialità e, a sprazzi abbaglianti, un'umanità e una dignità che, rispetto al nostro mondo cinico e rapace, sembrano giungerci da un'età dell'oro.

Sait Faik, a differenza di molti scrittori a noi noti, non deve fare alcuno sforzo per mescolarsi a quell'umanità: fin dalle prime righe dei racconti sentiamo che è uno di loro: «Poiché d'estate andavo spesso a sedermi nel giardino di questo piccolo caffè di quartiere, quando vi entrai quella sera, nel vento di maestrale e sotto la neve che turbinava furiosa, non destai curiosità». Non c'è nulla, in lui, del grande scrittore consapevole della sua importanza e posizione, che si sforza di mostrarsi un essere umano amabile o, perlomeno, in virtù delle sue confessioni più intime, nostro fratello. Sait Faik è stato per tutta la vita sia un grande scrittore (noto solo a pochi in patria e all'estero, dove pure ebbe qualche formale riconoscimento) sia un pover'uomo, sostenuto da modeste rendite familiari, perfino perseguitato politicamente per uno dei suoi racconti, episodio che lo indusse, per alcuni anni, a non pubblicare nulla. Non viveva nascosto tra gli umili, i teppisti, gli assassini, i balordi e gli ubriaconi perché, credendosi superiore, volesse studiarli, educarli, oppure per sfuggire alla chiusura e al disprezzo dei ceti più alti; semplicemente non avvertiva alcuna differenza tra quegli sconclusionati, quei falliti e se stesso. Il protagonista del racconto Un uomo inutile, che dà il titolo a tutta la raccolta, va preso in parola: «Non hai rinunciato a vagabondare, eh?» gli domanda un tale, e lui riflette: «Ho rinunciato, più che a vagabondare, a me stesso, ma è un dolore che non riesco a spiegare».

La bellezza della prosa di Sait Faik, sempre accuratissima senza mai essere ornata o leziosa, scorrevole e cristallina come acqua di fonte, colpisce anche perché non è mai piegata, per l'appunto, a spiegare niente. Sait Faik preferisce avvolgere il lettore in odori, colori, fugaci tratti somatici dei vari personaggi, caratteristiche peculiari del loro abbigliamento e certi gesti tipici (il caffettiere che sta sempre sul punto di slacciarsi il grembiule ma resta con le mani sul nodo, riallacciandoselo) e quando deve svelare un particolare della trama - quasi sempre storie di miserabili invischiati in traffici loschi oppure di amori spudorati - lo fa per tramite di dichiarazioni ambigue, allusive, frammentarie. Un personaggio che confessa al narratore - un giornalista venuto a fare un servizio fotografico sull'omicidio di una donna -, di essere il responsabile indiretto del delitto, prende la sua carta d'identità e, disperato, ne stacca la fotografia e la consegna al giornalista, dicendogli di pubblicare quella sul suo giornale, e non la foto della casa dove viveva la donna o del quartiere dove abitano degli sventurati con le finestre rotte coperte da teli. Poi se ne va smozzicando frasi insensate.

In ogni racconto di Sait Faik c'è una verità, ma avvolta in un involucro che la smorza, la rende evanescente, bisogna che ogni lettore la scopra e la decifri a modo suo. È questo ritegno, questo splendido divagare e indugiare sui tramonti sul Bosforo, sui vicoli e i marciapiedi battuti da donne che insieme gestiscono un bar e fanno la vita, acquaioli, marinai, ladri, ubriaconi, a formare come un mondo magico in cui tutto può accadere, dal comportamento più disumano e efferato all'atto che riscatta una vita di miseria e codardia. In altre parole, i racconti di Sait Faik ci disvelano un mondo non ancora meccanizzato, non ancora ossessivamente analitico e consapevole di sé e, in definitiva, impazzito, come quello contemporaneo, ma al tempo stesso i personaggi che lo abitano sono pur sempre gli uomini che ancora oggi esercitano violenza o patiscono, si vendicano o sopportano, ma sono più belli, perché la loro astuzia è quasi animale, pura, e la loro compassione nasce spontanea come l'ortica, non da un calcolo o da un guadagno di popolarità.

Tutti sono impopolari, i caratteri di questi racconti. Vogliono fare i soldi, ma solo per poi berseli tutti o nasconderli in una buca di un'isola del mar di Marmara.

Tutti hanno in vario modo rinunciato a se stessi, ma solo dopo questa rinuncia possono cominciare a comportarsi umanamente, fuori dalla competizione futile dell'esistenza e dai suoi apparenti compensi. Questi racconti di «un uomo inutile», come farmaci prodigiosi, vi salveranno molte giornate.

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