Cultura e Spettacoli

Prima gli stranieri, arte italiana snobbata

L'era Baratta si chiude con la mostra di Rugoff con due nostri connazionali su 79

Prima gli stranieri, arte italiana snobbata

E questi sarebbero i tempi interessanti? Tempi di sfide, contrasti, opportunità, contraddizioni. Se sono questi, allora l'Italia ne è esclusa, giusto una sede provvisoria. Venezia non c'entra nulla, ipermercato venduto all'Oriente, terra di nessuno, terra di conquista da parte dell'ennesimo curatore globale cui della nostra millenaria cultura non frega niente e non ha neppure l'educazione di sedersi a tavola e apprezzare le prelibatezze culinarie. Che non mangia a casa sua. Due artisti italiani su 79. Uno scempio. Un'offesa. Trattati come l'Angola, l'Uganda, l'Uzbekistan o qualsiasi altro luogo ameno, ameno ma esotico. Ralph Rugoff, il direttore della prossima Biennale d'Arte di Venezia presentata ieri a Cà Giustinian, ha limitato a Lara Favaretto e Ludovica Carbotta la rappresentanza del Paese ospitante. Lo avranno convinto, gli avranno detto che oggi l'Italia è un Paese che non cresce, a rischio dittatura, anti-europeista, soprattutto un Paese che i migranti non li vuole più (invece il sistema dell'arte li accoglie, nelle case dei ricchi!). Non che si sia fatto un giro a Milano, una delle città più vive d'Europa, dove cultura, ingegno, impresa viaggiano a pieno ritmo. Non che sia andato a Napoli, grande capitale mediterranea culla di talenti, non che abbia visitato la nostra provincia, le gallerie, le accademie, gli spazi indipendenti, i giovani e i meno giovani. No, per Ralph Rugoff l'Italia alla sua Biennale vale 2 su 79. Due artiste donne che sommate ai tre del Padiglione nazionale di Milovan Farronato fanno cinque: una purtroppo morta (Chiara Fumai), un altro conosciuto solo all'estero (Enrico David), resta Liliana Moro. Chissà perché questo giochetto non lo vanno a fare con la Biennale del Whitney a New York (tutti americani), a Istanbul o a Documenta. Semplice, non glielo permettono, mentre qui ormai abbiamo sbracato, «passa l'invasore», ciascuno fa ciò che vuole e nessuno dice niente.

Si conclude malissimo la lunga era Baratta. Il presidente della Biennale ricorda di avere inaugurato, vent'anni fa, la stagione delle grandi curatele internazionali, proprio con Harold Szeemann. Paragone irriverente, Szeemann aveva idee, curiosità, lo vedevi in giro per le fiere (a proposito Rugoff, solo nel nord Italia ce ne sono quattro, ci sei andato?), visitava gli studi degli artisti italiani. Dopo di lui, a parte Massimiliano Gioni, Baratta ha scelto solo curatori stranieri per Biennali mosce ad eccezione proprio di quella dell'italiano, spente, furbette, all'insegna del politicamente corretto, false e ipocrite. Di cui non ci ricordiamo pressoché nulla perché non c'è nulla da ricordare.

Il resto sono solo dati da offrire alla stampa: 11 maggio - 24 novembre, 90 partecipazioni nazionali (salutiamo con entusiasmo Madagascar, Pakistan, Algeria, Ghana!), 21 eventi collaterali, progetti di formazione, ricerca. E appunto una lista di 79 artisti scelti non sappiamo con quale criterio, tra cui possiamo fare dei nomi giusto per cronaca o per gusto: Michael Armitage, un buon pittore attualmente in mostra alla Fondazione Sandretto, George Condo, Stan Douglas, Jimmie Durham, Christian Marclay e tanti altri, i più noti dei quali vivono tra New York e Berlino, tra l'Olanda e l'Africa, non in un posto solo. Ovunque tranne che in Italia, Paese dove un tempo sono passati Leonardo e Michelangelo, Caravaggio e i Futuristi, Arte Povera e Transavanguardia. Niente, rispetto al profugo, alla femminista in guerra per i diritti delle donne, al gay, al transgender, all'ecologista, all'ambientalista, al documentarista. E la forma? L'eleganza? La cultura?

Anche nell'arte ci vorrebbe qualcuno che coniasse un hashtag del tipo #primagliartistiitaliani. Anche solo per evitare di farci prendere per i fondelli con i nostri soldi. Sputtanandoci davanti a tutto il mondo. Al presidente Luca Zaia e al sindaco di Venezia Luigi Brugnaro toccherà dire la loro sul dopo Baratta e sul nuovo presidente della Biennale. Intendiamoci, il professore ha fatto bene in passato, però questa volta ha mollato i remi in gondola.

«May You Live in Interesting Times» sarà anche un bel titolo, ma speriamo sia l'ultima di una lunga serie di mostre che ha mortificato l'arte italiana, trattata come un'espressione del terzo mondo.

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