«Lei sentirà fra breve la risposta alla sua novella - essa suona come una schioppettata. Ho convocato un congresso di principi a Roma, voglio far fucilare il giovane Kaiser. Arrivederci! Perché ci rivedremo. Une seule condition: Divorcons...». Firmato: «Nietzsche Caesar». Non è ancora, a rigore storico e filologico, uno dei «biglietti della follia», perché la follia di Nietzsche si rese pubblica il 3 gennaio 1889, con il famoso abbraccio al cavallo maltrattato dal cocchiere, in piazza Carignano a Torino. Ma, come si capisce, ci siamo quasi. È infatti il 31 dicembre 1888 quando il povero Friedrich indirizza quelle parole ad August Strindberg. «Tra i miei lettori - aveva scritto a Meta von Salis - ho un vero genio, lo svedese August Strindberg, che mi sente come lo spirito più profondo di tutti i millenni». Nietzsche aveva definito, soltanto un anno prima, un «capolavoro di dura psicologia» la tragedia Il padre, e il drammaturgo seguì con apprensione, da lontano, il tramonto psichico del filosofo. In La catastrofe di Nietzsche a Torino c'è il sorriso amaro (e cinico) di Anacleto Verrecchia: «È stato notato che l'adoratore di Nietzsche, generalmente, ha qualche problema di natura psichica, sia pure latente». In effetti Franco Perrelli, fra i maggiori studiosi di Strindberg, in August Strindberg. Il teatro della vita parla espressamente, per l'autore, di un «obiettivo stato di squilibrio psiconevrotico» nel periodo 1893-94.
E comunque udiamo distintamente echi nicciani in una sua opera di dieci anni dopo, il romanzo breve Solo che, nota ancora Perrelli, «conclude in senso proprio il discontinuo progetto narrativo-autobiografico del Figlio della serva». In Solo, riproposto ora da Carbonio Editore (pagg. 141, euro 13,50, traduzione e introduzione dello stesso Perrelli) emerge soprattutto la contrapposizione fra individuo e comunità. In questo caso l'individuo, dopo lunga assenza, torna nella propria città, Stoccolma, e, riallacciati per qualche serata i rapporti con i vecchi amici, piomba in un solipsismo fra il patologico e il creativo. Ormai cinquantenne, il narratore si definisce «vedovo» (nonostante la terza moglie, Harriet Bosse, non fosse morta) e prende in affitto «due camere ammobiliate da una vedova». Il suo non è, come il nostro di oggi, un isolamento fiduciario, ma un isolamento sfiduciato. «Questa è infine la solitudine: avvolgersi nella seta dell'anima, farsi crisalide e attendere la metamorfosi, che non può mancare. Si vive intanto delle proprie esperienze e, telepaticamente, si vive la vita altrui. La morte e la resurrezione; una nuova educazione per un nuovo ignoto».
E che cosa significa, per un drammaturgo, vivere «telepaticamente» le vite dei vicini di casa o dei passanti, se non ipotizzare una loro messa in scena? Per contro, in questo processo di estraniazione il nume tutelare è Balzac con la sua Commedia umana popolata da migliaia di persone-personaggi. Ecco il «maggiore in pensione»; «un uomo decisamente oltre la sessantina»; un militare a cavallo; una vecchia che porta a spasso due cani; «una befana, una presenza che considero occulta»; una cantante e la sua amica che suona al pianoforte Beethoven; la famiglia del piano di sotto; il droghiere che apre bottega e al quale gli affari vanno malissimo, tanto che deve chiudere di lì a poco... Le quattro stagioni, dalla primavera all'inverno, sono come quattro atti di una pièce. La primavera di chi trasloca e si vergogna di far vedere la propria mobilia; l'estate in cui i vicini se ne vanno in vacanza e in un campo si svolgono delle esercitazioni militari, e un giro in carrozza diventa una discesa agli inferi abitati dai poveri; l'autunno con un sussulto di socialità: «La città cambia aspetto; è più facile incontrare un volto conosciuto, e questo dà tranquillità, solidarietà e sicurezza»; l'inverno con la scoperta che nell'appartamento in cui lui abitava tanti anni prima ora vive «un giovane compositore, con il quale a suo tempo ho collaborato». Quando torna la primavera, il ragazzo si fidanza con una bella fanciulla che il Nostro ha già visto accudire un bambino. Il «Signor X»-Strindberg, dalla strada li scorge tutti e tre grazie alla finestra senza tende.
«E lasciai quella stanza, nella quale avevo penato durante la mia giovinezza, contento di essere giunto dov'ero, e ancora in grado di rallegrarmi della felicità altrui, senza alcun rammarico, nostalgia o false inquietudini, e tornai a casa alla mia solitudine, al mio lavoro, alle mie lotte». Il solo non è più nemico degli altri. È diventato amico di sé stesso.
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