Quando tutto esplose, nel 1862, nessuno si aspettava davvero una guerra, la questione indiana era considerata archiviata. Col senno di poi è però evidente che fosse quasi impossibile far convivere una società, quella dei pellerossa, che era sostanzialmente all'età della pietra, con una società multietnica in espansione, che stava colonizzando un continente a colpi di ferrovia, macchine e armi da fuoco. Prima ancora di avere ragione o torto i due contendenti non erano nemmeno in grado di capirsi davvero: venivano da epoche diverse. Persino nella concezione della guerra. Per gli indiani era un gioco, seppure crudele e violento, per i bianchi un fatto politico da concludere con il più rapido annientamento possibile del nemico.
Ma niente di questo era chiaro mentre alla Lower Sioux Agency vicino a Fort Ridgely (Minnesota), la mattina del 17 agosto 1862, un elegantemente vestito Piccolo Corvo assisteva, per l'ultima volta, alla funzione religiosa. Alla fine salutò tutti e tornò alla riserva. Sarebbe riapparso il giorno dopo con sciami di guerrieri che avrebbero messo a ferro e fuoco tutte le fattorie della zona. Tradimento indiano? Per molti anni il colto e alfabetizzato Piccolo Corvo aveva cercato di essere amico dei coloni, su questo non c'è dubbio. E forse anche i coloni avevano simpatia per quello che sembrava loro un bizzarro indiano civile, da esibire come esempio di buon selvaggio colonizzato. Peccato che nessuno si fosse preso la briga di controllare di che qualità fossero i rifornimenti di cibo inviati dagli avidi commercianti locali alla riserva. Unica vera condizione per mantenere la pace.
Solo una settimana prima, i Sioux avevano ricevuto l'ultimo insulto. I capi si erano recati all'agenzia per cercare di ottenere le provviste governative da molto tempo promesse, ma il commerciante, Andrew J. Myrick, li aveva ascoltati con una smorfia di scherno. «Se hanno fame possono mangiare erba, per quello che m'importa» aveva risposto spietatamente, dopo che per settimane li aveva riforniti solo di carne marcia. I Dakota Santee (Sioux orientali) avevano udito e ricordato. Quando scatenarono il loro attacco Myrick fu ucciso davanti al suo magazzino. Il cadavere fu ritrovato con la bocca imbottita d'erba. Ci andarono comunque di mezzo anche centinaia di coloni, per lo più di origine tedesca, che contro gli indiani, almeno scientemente, non avevano fatto nulla.
Si salvarono solo quelli che raggiunsero Fort Ridgely, dove un violento attacco fu sventato solo grazie a dei vecchi cannoni che venivano tenuti in funzione per hobby da un vecchio artigliere.
Era iniziata così la prima delle guerre indiane che portarono allo sterminio dei pellerossa. Le racconta con un piglio narrativo eccezionale Paul I. Wellman in Tomahawk. Trent'anni di guerre nelle pianure ora pubblicato in italiano (dopo decenni di assenza) per i tipi di Odoya (pagg. 252, euro 18). Wellman (1895-1966) è stato un giornalista di vaglia ed un divulgatore di storia molto apprezzato dell'America anni '30 e '40 (questo volume è del 1934). Tanto da diventare poi uno dei più amati consulenti cinematografici, soprattutto di western. Giusto per fare un esempio dai suoi romanzi sono state tratte pellicole come: Le mura di Gerico (1948), L'ultimo Apache (1954) di Robert Aldrich con Burt Lancaster e I comanceros (1961) di Michael Curtiz con John Wayne.
In Tomahawk il piglio del narratore si vede soprattutto nella prosa scorrevole. Wellman spazia dalla firma del trattato del 1835 che sembrava aver dato forma stabile alla questione indiana sino alle ultime battaglie. L'uccisione di Toro Seduto, nel 1890, che cadde in un feroce parapiglia tra la polizia indiana della riserva e i suoi sostenitori. E il massacro di Wounded Knee dove il Settimo cavalleria si prese una vigliacca rivincita dopo Little Bighorn trucidando la tribù di Grosso Piede, praticamente indifesa. Il testo è mirabilmente privo di volontà ideologiche. In largo avanzo con i tempi Wellman, non è mai indulgente con le colpe dei bianchi. Ma è anche alieno dal trasformare gli indiani in quello che non furono, solo delle vittime. Semmai è bravissimo a far risaltare lo iato insanabile tra due civiltà che non erano in grado di convivere e che la storia ha fatto incontrare, quasi infrangendo le barriere di spazio e tempo esistenti tra la preistoria e la modernità.
Una vicenda sanguinosa già segnata sin dall'inizio quando Piccolo Corvo, passate le prime effimere vittorie venne costretto alla ritirata dopo il massacro dei suoi guerrieri a Wood Lake, nel 1862. In fuga, affamato e braccato, venne ucciso dai bianchi mentre era rimasto solo con suo figlio sedicenne, nel 1863. Sul momento non lo riconobbero nemmeno, solo un altro indiano a cui sparare a vista. La verità emerse dopo, i bianchi nella foga di vendetta non avevano nemmeno riconosciuto il loro grande nemico. Una cecità quasi metaforica. Come scrive Wellman: «Così morì Piccolo Corvo, che al culmine del suo potere fu uno tra i più temuti pellerossa; protagonista di uno dei peggiori massacri della storia, a suo modo fu uno studioso e un gentiluomo.
Si era avviato sul sentiero dell'uomo bianco, ma l'aveva lasciato quando i torti che il suo popolo subiva erano stati troppi. Ridotto a raccogliere more per sostentarsi, venne ucciso da cacciatori bianchi e il suo corpo gettato nella discarica puzzolente di una macelleria».
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