Tanta estetica in teoria per poca arte in pratica

Una carrellata sulla dottrina del bello oggi in Italia. Da cui emerge l'autoreferenzialità dei filosofi

Tanta estetica in teoria per poca arte in pratica

Tanta estetica, poca bellezza. Leggendo il corposo Estetica italiana contemporanea di Mario Perniola (Bompiani, pagg. 272, euro 12) si ha l'impressione che nelle nostre università l'elaborazione filosofica intorno all'arte vada a gonfie vele: «L'Italia ha prodotto nel corso degli ultimi cinquant'anni un cospicuo numero di pensatori di alto livello che hanno portato un contributo originale e innovativo aprendo orizzonti inediti su che cosa è il bello e che cosa è l'arte». Non mi permetto di confutare tale affermazione, sia perché Perniola è uno dei nostri filosofi massimi, autore di titoli epocali come Il sex appeal dell'inorganico, sia perché di università so pochissimo. Però tengo sotto controllo le gallerie d'arte, le mostre d'arte, le riviste d'arte, i siti d'arte, le aste di opere d'arte e le pagine culturali che di arte parlano e constato che nel mondo extra-accademico di questi grandi risultati estetologici non è giunta nemmeno l'eco.

Anche Perniola se n'è accorto: «È andato perduto quel rapporto fra estetica e cultura italiana». Senonché, a dispetto di tanta amara consapevolezza, firma un sottotitolo trionfante: Trentadue autori che hanno fatto la storia degli ultimi cinquant'anni. Non vorrei essere impietoso ma la domanda sorge spontanea: quale storia hanno fatto Vattimo ed Eco, Colli e Fachinelli? Forse la storia dell'estetica, non certo la storia del mondo e nemmeno la storia dell'arte. Perniola della mancanza di incisività incolpa la crisi dell'editoria scientifica e il blocco delle carriere universitarie. Io denuncerei anche il solipsismo dei filosofi, per non parlare di autismo ché altrimenti qualcuno si offende. Il caso limite è quello di Andrea Emo che durante la sua lunga vita non ha voluto pubblicare una riga e adesso ai poveri posteri tocca decifrare una montagna di manoscritti (pare ci siano ancora 38mila pagine inedite). Il nobiluomo padovano in uno degli innumerevoli quaderni definisce la sua scrittura «come una epistola che io solo a me soltanto intendo scritta, come al più degno corrispondente». Bravo, complimenti, si merita un sarcastico grazie a nome di tutte le generazioni di artisti che negli oltre sessant'anni della sua grafomania catacombale (1918-1981) non hanno potuto beneficiare di tanto genio. Anche oggi, e stavolta non per sua colpa, Emo di benefici ne arreca pochi siccome il postumo Le voci delle Muse. Scritti sulla religione e sull'arte è fuori catalogo e non si trova nemmeno al Libraccio o su Mare Magnum. Amen.

Poi ci sono i filosofi che diversamente da Emo pubblicano ma che analogamente a Emo sembrano avere come unico destinatario loro stessi. Penso innanzitutto a Massimo Donà che Perniola elogia con entusiasmo e di cui segnalo un Teomorfica. Sistema di estetica che terrorizza per numero di pagine (1196), numero di virgolette semplici, numero di virgolette doppie, numero di parole in corsivo, numero di puntini, numero di trattini, numero di lunghe citazioni in lingua originale (preferibilmente morta), numero di frasi incomprensibili. Aspetto ancora che qualcuno lo traduca in lingua italiana. Secondo uno dei 32 autori 32 a cui Perniola offre attenta catalogazione e voce, Giorgio Agamben, oggi «la situazione di chi scrive in italiano di filosofia non può essere che quella di un sopravvissuto, di uno scrivente senza destinatario». È vero, ma la colpa non è solo del pubblico caprone, è anche dei filosofi avulsi. Perché mai nella lunga bibliografia in coda al volume non appare una sola monografia dedicata a un artista italiano vivente? Ai nostri 32 sapienti gli artisti italiani sembrano interessare solo se morti, meglio se da secoli. Donà è veneziano esattamente come Cacciari, altro beniamino di Perniola: visto che sono in zona perché non si fanno una passeggiata in Biennale e ci dicono cosa pensano del Padiglione Italia? Se davvero il loro sguardo sull'arte è originale e innovativo, perché non ce lo dimostrano? Perché non lo condividono?

L'opera di Giorgio Andreotta Calò, per fare un esempio, appartiene alla scenografia, come temo, o all'arte con la A maiuscola, come spero? Vorrei davvero che qualcuno me lo spiegasse.

Possibilmente allegando un metodo riproducibile, magari più convincente di quanto espresso da Remo Bodei a pagina 20: «Bello e brutto non possono più essere pensati come contraddittori e nemmeno come opposti, bensì come termini fluttuanti e intercambiabili». Originale? Innovativo? A me ha fatto venire in mente Il bello di essere brutti, canzone del noto estetologo contemporaneo J-Ax.

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