In poche parole, il '68 è stato la distruzione dell'autorità di un'istituzione fondamentale dello Stato Italiano: la scuola. Prima di quella data, la formazione dei giovani aveva un percorso razionale e rigido, definito dalle leggi del 1923, emanate da Giovanni Gentile, e poi da Giuseppe Bottai nel '40. Per capire che la condizione comatosa in cui si trova questa istituzione (scuola/ università) non è figlia di un destino cinico e baro, bisogna ricordare il disastro provocato da due leggi della Repubblica: la prima è la numero 1859 del governo Fanfani, con cui si istituisce la Scuola Media Unificata nel 1962; la seconda, quella del 1969 numero 910, è a firma di Tristano Codignola che decretava la liberalizzazione degli accessi universitari e dei piani di studio. Due leggi che aprono all'istruzione di massa in modo scriteriato, senza alcuna preoccupazione di garantire sia la qualità dell'insegnamento, sia la preparazione professionale degli insegnanti.
Prima della legge 1859, alla scuola media si accedeva con un impegnativo esame al termine della quinta elementare: era un filtro che prevedeva un'ulteriore selezione nella scuola media per accedere all'istruzione secondaria superiore e poi all'università. In alternativa c'erano le scuole professionalizzanti che garantivano la continuità delle conoscenze e delle attitudini proprie dell'artigianato italiano. La seconda legge, quella di Codignola, si era preoccupata di distruggere (legalmente) l'università italiana. Come la Scuola Media Unificata non filtrava più il merito per accedere alle scuole superiori, così adesso non si seleziona più, secondo il merito, l'iscrizione all'università.
Prima del '68 l'università era il cuore della formazione della futura classe dirigente italiana, centro della ricerca scientifica e umanistica di livello internazionale. Indubbiamente una realtà elitaria a cui, appunto, si accedeva attraverso il rispetto di una coerente relazione organica con gli studi svolti in precedenza. Per esempio, poteva iscriversi alle facoltà di Lettere e Filosofia o di Giurisprudenza soltanto chi avesse frequentato il liceo classico. Ovvio che chi disponeva del sostegno economico familiare potesse affrontare con più disinvoltura gli studi, ma c'erano sempre stati importanti aiuti economici da parte dello Stato per gli studenti di famiglie non abbienti.
I movimenti studenteschi del '67-68 non nascono a caso. Sono figli di un'élite giovanile di formazione cattolica e comunista che, in un contesto politico nuovo, considerarono l'università un centro per la formazione di una coscienza politica chiamata a rovesciare i modelli su cui si reggeva la società italiana del dopoguerra, da quelli dell'educazione scolastica, a quelli familiari, a quelli della rappresentanza partitica.
La legge Codignola vara un'università di massa, disgregando i principi da cui l'università stessa fondava il suo significato sociale e scientifico. Un'operazione drammaticamente riuscita. L'università di massa nasce senza nessuna riforma strutturale, senza prevedere un nuovo modello organizzativo per la didattica. Si aprono gli accessi a tutte le facoltà per tutti gli studenti con diploma di scuola superiore: chi possiede quello di geometra o ragioniere può iscriversi a Lettere, Giurisprudenza o dove vuole.
La risposta dello Stato alle pressioni studentesche è al limite del menefreghismo più inetto a governare il cambiamento. E così negli atenei va al potere la fantasia degli studenti: voto politico uguale per tutti, esami di gruppo e seminari dove erano gli stessi studenti a salire in cattedra e a stabilire i testi per sostenere l'esame (di gruppo).
Mentre negli altri Paesi europei e nord americani, passato il vento della contestazione, si mise mano a riforme per la necessaria modernizzazione degli studi accademici in una nuova realtà socio-economica, in Italia nessuno se ne preoccupa, e l'università di massa si trasforma in un poderoso ammortizzatore sociale delle contraddizioni politiche ed economiche innescate dai movimenti studenteschi e operai. Da qui i limiti e le arretratezze che segnano profondamente l'università di oggi e che il legislatore non è mai riuscito a cambiare, in difficoltà - anche - per la politica antimeritocratica difesa dal maggior sindacato italiano.
Nei primi anni '70 all'interno del Pci si sviluppa un dibattito sulla necessità o meno di sostenere l'ingresso dei docenti nella Cgil, che allora non aveva una propria rappresentanza organizzata tra gli insegnanti. Responsabile culturale del Pci era allora Giorgio Napolitano. Una parte del partito, ritenendo la classe docente una professione liberale, come quella dei magistrati o dei giornalisti, sosteneva che essa non dovesse entrare nel sindacato. Il partito avrebbe esercitato sui docenti - dall'esterno - una «egemonia culturale» affinché aderissero in modo collaterale alle posizioni comuniste. Prevalse, invece, sotto la pressione dei movimenti sessantotteschi, una visione radicale, quella «operaista», che omologava l'insegnante della scuola di massa all'«operaio massa», la scuola alla «fabbrica», lo studente al «lavoratore». A differenza delle altre professioni liberali, quella della docenza entra così a vele spiegate nel sindacato, che finisce per condizionare tutta la legislazione dello Stato sulla scuola. Inizia una sistematica demolizione dei principi meritocratici di selezione degli insegnanti: abolizione dei concorsi, decreti per l'immissione in ruolo dei docenti valutando anche solo pochi mesi di supplenza, passaggi di cattedra senza alcun criterio scientifico.
Ancora oggi la scuola non riesce a liberarsi dagli effetti di questi disastri.A conti fatti, non ci si stupisca se gli studenti migliori vanno all'estero e se i docenti non godono del rispetto sociale e vengono picchiati.
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