
Negli Stati Uniti si sta combattendo una vera e propria guerra della pasta e questa volta non è una metafora culinaria. La tensione commerciale tra Washington e i produttori italiani si è accesa attorno a un simbolo nazionale: la pasta. Gli Stati Uniti, nel tentativo di proteggere la produzione interna e riequilibrare la bilancia commerciale, hanno imposto dazi doganali pesanti sui formati italiani più esportati, colpendo marchi storici come Rummo, De Cecco e La Molisana. Ma dietro la cronaca economica si nasconde un intero universo culturale, fatto di miti, passioni e fraintendimenti che raccontano il rapporto contraddittorio e affascinante tra l’America e la pasta italiana.
Non è stato un amore a prima vista. Quando alla fine dell’Ottocento milioni di immigrati italiani sbarcarono a New York portando con sé sacchi di farina e ricette di famiglia, la pasta era guardata con sospetto: troppo strana, troppo “straniera”. I primi ristoranti italiani, le cosiddette “spaghetti houses”, erano considerati locali di bassa lega. Eppure, a poco a poco, gli americani iniziarono ad assaggiare quegli spaghetti fumanti coperti di sugo, e fu un colpo di fulmine gastronomico. Negli anni Venti, l’industria americana scoprì il potenziale commerciale della pasta secca: nacquero marchi locali che cercarono di “americanizzare” il prodotto, proponendo tempi di cottura ridotti e salse più dolci.
Ma furono gli anni Cinquanta a decretare la vera consacrazione: la Dolce Vita, Sophia Loren, Fellini, il sogno italiano che conquistava Hollywood e le tavole degli Stati Uniti. Da allora la pasta non è più solo cibo, ma simbolo di stile di vita. Negli Stati Uniti esiste un National Spaghetti Day, celebrato ogni 4 gennaio, e persino un intero mese dedicato alla pasta, ottobre, con festival e competizioni gastronomiche da New York a San Francisco.
In televisione, gli chef americani l’hanno trasformata in un piatto glamour, reinterpretandola spesso fino all’eresia. Non mancano le versioni “creative”: pasta con ketchup, spaghetti spezzati in pentola, maccheroni sciacquati sotto l’acqua fredda per non farli “attaccare”, e naturalmente le onnipresenti “pasta Alfredo”, che in Italia nessuno riconosce come piatto tradizionale.
Eppure la storia delle Fettuccine Alfredo è autenticamente italiana, anche se travolta dall’entusiasmo americano. Alfredo Di Lelio, ristoratore romano dei primi del Novecento, inventò un piatto di fettuccine con burro e parmigiano per ristorare la moglie malata.
Il caso volle che due attori del cinema muto, Mary Pickford e Douglas Fairbanks, lo assaggiassero a Roma e se ne innamorassero. Tornati a Hollywood, ne diffusero la ricetta, che però negli Stati Uniti divenne un’altra cosa: più panna, più aglio, più formaggio, più “american taste”. Così nacque la Fettuccine Alfredo che oggi campeggia nei menù delle grandi catene come Olive Garden e Macaroni Grill, simbolo della reinterpretazione americana della cucina italiana. Negli ultimi anni, tuttavia, una nuova generazione di chef e consumatori americani ha iniziato a riscoprire la vera tradizione gastronomica italiana. A New York, Los Angeles e Miami si moltiplicano i ristoranti regionali che servono pasta fresca trafilata al bronzo, con ingredienti DOP e abbinamenti filologici.
Le etichette “Made in Italy” sono diventate sinonimo di autenticità e raffinatezza. Allo stesso tempo, il mercato americano della pasta si sta evolvendo: cresce la domanda di pasta senza glutine, di legumi, di farro o perfino di alghe, segno di una società attenta alla salute e alla sostenibilità. Ma anche in questa rivoluzione alimentare, l’Italia resta il punto di riferimento: nessuno riesce a replicare davvero il gusto, la consistenza e la cultura della pasta italiana. Proprio per questo, i nuovi dazi americani sull’importazione rischiano di cambiare il gioco. Le aziende italiane denunciano una manovra protezionistica che danneggia un settore da oltre un miliardo e mezzo di euro l’anno e mette a rischio un prodotto simbolo della nostra identità nazionale.
Ma più che economica, questa è una guerra di immaginario: perché la pasta, negli Stati Uniti, non è solo un alimento. È un ponte culturale tra due mondi.
È la memoria dei nonni che arrivavano a Ellis Island con una valigia e un sacchetto di semola. È la scena familiare del pranzo della domenica, condivisa da milioni di americani di origini italiane. È il piatto che ha saputo unire le due sponde dell’Atlantico meglio di qualunque trattato diplomatico.