Il sottosuolo da cui Dostoevskij fa trarre le Memorie all'anonimo protagonista del suo romanzo si riferisce, prima che all'auto-analisi di quell'«uomo senza qualità» pre-Musil, alla struttura delle vecchie izbe russe, che avevano il pavimento sopraelevato rispetto al terreno affinché fossero più protette dal freddo e dall'umidità. Nel «sottosuolo» delle izbe c'era un locale seminterrato adibito a deposito di cose vecchie, inutilizzabili, inutilizzate o da sottrarre agli occhi altrui. Il «sottosuolo», dunque, come discarica delle vergogne.
Potrebbe aver pensato a questa doppia lettura, psichica e materiale, del «sottosuolo», lo scrittore belga Peter Terrin, prima di mettere i protagonisti di Il guardiano (Iperborea, pagg. 288, euro 17, traduzione di Claudia Cozzi) in un «sottosuolo» distopico, forse persino post-apocalittico. Tecnicamente, si tratta di un seminterrato, «centoventi posti auto suddivisi in quaranta garage custoditi, uno per ciascuno degli appartamenti di lusso di mille metri quadri», ma la sostanza non cambia: confinati lì sotto, nella loro cameretta con i letti a castello, i custodi Harry e Michel toccano il fondo dell'abiezione. A mandarli laggiù è stata l'Organizzazione, che è molto più di un'azienda di sorveglianza privata. Sono a disposizione dei ricchi 24 ore su 24: devono badare che nessun estraneo varchi il cancello d'ingresso ai parcheggi da dove i «clienti» e i loro cuochi, badanti, cameriere prendono l'ascensore per salire in casa.
Siamo in un tempo sospeso, carico di tensione, perché fuori, nel mondo, è accaduto qualcosa di gravissimo, anche se non si sa di preciso che cosa, e qualche superstite, magari affamato, disperato, incattivito potrebbe cercare rifugio proprio lì. «Se è stata una bomba o un'esplosione, dev'essere stato molto lontano da qui. Non più di un paio di testate nucleari, magari un attacco a una città sulla costa meridionale. Un attacco su vasta scala avrebbe causato una nuvola di polvere che avrebbe oscurato il sole», dice Michel ad Harry. I due vivono in una forzata simbiosi, come una coppia condannata all'indissolubilità del vincolo. Michel, il Narratore, è meticoloso, incline alla riflessione e alla commozione, e svolge funzioni solitamente da femmina (sì, anche in quel senso), tipo lavare gli asciugamani e rassettare il bagno. Harry, più giovane di qualche anno ma con maggiore anzianità di servizio, è il maschio decisionista: «Ha il viso squadrato, la pelle tesa e liscia. I muscoli della mandibola sono come quelli di un ruminante».
La prima svolta avviene quando, alla spicciolata, i «clienti» se ne vanno e ne resta soltanto uno, sconosciuto ai sorveglianti. Se ne sono andati, ipotizza Harry, per trasferirsi nelle loro ville in campagna, dove forse potremo andare anche noi al loro seguito, respirando finalmente aria fresca, aria viva. La seconda svolta avviene quando un giorno, invece del solito ragazzo che consegna ai due i viveri, si presenta all'entrata un nuovo sorvegliante. Ed è ovviamente Harry a prendere male la cosa, interpretandola come una bocciatura da parte dell'Organizzazione. Non diremo che cosa accade all'intruso. Né quale parte tocchi, in questo dramma beckettiano in cui la suspense prende il sopravvento sui dialoghi, all'ultimo residente.
Né diremo se fuori dal teatro in cui si svolge l'assurdo dramma è rimasta qualche parvenza di vita. Diremo soltanto che questi uomini del sottosuolo di un futuro prossimo venturo (o forse del presente) sono messi peggio di quello di Dostoevskij. Il quale, se non altro, poteva prendersela con sé stesso.
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