Camillo Langone
Altro tradimento. Chiunque conosca un poco la vita e le opere di San Francesco sa quanto «il più santo degli italiani, il più italiano dei santi» sia stato tradito dalla vulgata dominante: spacciato come pacifista quando invece partecipò alla Crociata, come sincretista quando invece cercò di convertire i musulmani, come animalista quando invece esortava i frati a solennizzare le feste mangiando carne, come pauperista quando invece, a differenza degli eretici suoi contemporanei, mai criticò il lusso di papi e prelati... Adesso c'è un libro che svela un tradimento ulteriore. Lo ha scritto in prosa raffinatissima, da letterato più che da estetologo qual è, Flavio Cuniberto, e lo ha intitolato Paesaggi del Regno. Dai luoghi francescani al Luogo Assoluto (Neri Pozza, pagg. 352, euro 28).
È un affascinante viaggio filosofico-teologico nel centro segreto d'Italia, fra la Verna e la Valle Santa, ossia la Piana di Rieti, fra il monte Vettore e il lago Trasimeno, percorrendo la valle del Tevere «nel suo svolgersi solenne e sinuoso: dalla prima sorgente del Monte Fumaiolo verso Città di Castello, e poi Torgiano e Todi, e il Lago di Corbara, e la rupe di Orvieto, la rupe di Orte, e il lento discendere tra l'altopiano della Sabina e le rocce tufacee di Civita Castellana, fino alla confluenza con l'Aniene e ai lenti meandri che precedono l'ingresso nella città». Insomma, tutte le strade battute da San Francesco durante la sua nomadica esistenza, attraversando plaghe che noi, uomini di poca fede, diremmo desolate, e che invece a lui sembravano il giardino dell'Eden: il Regno del titolo. Un continuo andirivieni fra eremi umbri, toscani e marchigiani, fra visioni e predicazioni, miracoli e presepi, e sempre, nonostante le stimmate, in «perfetta letizia». Analizzato in pagine sinuose come il Tevere, ipnotiche e dense.
Ma vengo al tradimento. L'amico lettore ricorderà il crocifisso di San Damiano che indirizzò lo zelo del futuro Santo mettendosi a parlare: «Francesco, va' a restaurare la mia dimora che sta andando tutta in sfacelo». Era (ed è, oggi si trova sempre ad Assisi nella basilica di Santa Chiara) un mirabile esempio di «Christus triumphans», un Cristo vincitore sulla morte, raffigurato in croce ma con gli occhi bene aperti e il viso privo di dolore. Certamente un uomo e, al contempo, certamente Dio. Questa iconografia a San Francesco carissima venne stravolta e capovolta poco dopo la sua morte dal suo successore, quel frate Elia che nel 1236 commissionò a Giunta Pisano, per la basilica superiore di Assisi, una grande Croce dipinta che sarà il più influente esempio di Christus patiens, di Cristo morente e morente nel dolore, dunque molto più uomo che Dio. È la svolta. Oltre che artistica, teologica. «Lex pingendi, lex credendi», fa notare Cuniberto: il contenuto della fede tende a conformarsi al contenuto della pittura. Siamo ancora nel Medio Evo, dunque nel pieno dell'età cristiana, eppure proprio ad Assisi comincia la discesa lungo la quale Cristo apparirà via via sempre più umano, impotente, irrilevante: «La sua raffigurazione come un semplice corpo morto - che poi diventerà obbligata, e fino agli esiti più strazianti, da Mantegna a Grünewald, fino alla spettacolarità cruenta e sadica della cosiddetta arte sacra contemporanea - non lo presenta affatto come Dio, e perciò non lo rappresenta affatto».
Cuniberto non lo dice, ma lo fa capire: anche l'odierna Chiesa in ritirata, accasciata, non giudicante, è figlia di quell'antica sterzata iconografica. Forse Papa Francesco si sarebbe dovuto più coerentemente chiamare Papa Elia?
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