Primi anni Cinquanta. Atterrato presso una cittadina del sud degli Stati Uniti, un marziano fissa una vetrina accanto a una madre con un bambino. Vedendo il marziano, il bambino dice: «Mamma, un negro verde!». La vecchia barzelletta contiene in nuce Planet 51 di Jorge Blanco, che capovolge la solita prospettiva della fantascienza da invasione. Un astronauta americano, biondo e atletico, pianta la bandiera su un pianeta che vive come vivevano gli Stati Uniti del 1951 e che lui credeva disabitato. Tanto che il Nostro è sceso proprio nel giardino di una villetta, dove una famigliola tutta verde prepara il barbecue.
La trovata iniziale determina il resto. I ruoli tradizionali della fantascienza americana sinvertono. Lesploratore si scopre invasore e - quel che è peggio - invasore unico. Un intruso, insomma. Dalle attenzioni del locale esercito, che ha le stessa prudenze un po ottuse degli eserciti da film, lo salvano il robot giunto con lui e soprattutto un ragazzino indigeno.
Planet 51 è una sorta di ET capovolto, che tiene presente - per gli accompagnatori in età avanzata dei piccoli spettatori - i luoghi comuni della fantascienza più interessante, quella degli anni Cinquanta, dove il messaggio politico era coperto dalla patina della catastrofe. I bambini non se ne renderanno conto; e nemmeno gli adulti che non siano cresciuti nei cinema. Se ne accorgeranno i critici e ci vuol poco per renderli conniventi a colpi di nostalgia.
Non è un caso nemmeno se lanno evocato dal numero del pianeta è quello del culmine del maccarthismo, favorito dalla guerra di Corea. Come il cinema noir, il cui apice è raggiunto alla fine degli anni Quaranta, il cinema di fantascienza ha allineato luoghi comuni di grande fascino.
Privato di questi risvolti, Planet 51 perde gran parte del suo fascino. Se i bambini escono comunque contenti, è per il lieto fine, oltre perché i timori di un tempo sono in fondo i timori di sempre.