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Votare o non votare? Il dilemma democratico da Platone alla Brexit

Sono i popoli a dover decidere quanto vogliono che sia grande la "casa comune"

Votare o non votare? Il dilemma democratico da Platone alla Brexit

L'esito del referendum inglese sulla Brexit ha riproposto, com'era forse prevedibile nel caso della sconfitta del remain opzione che avrei scelto se fossi stato suddito di S.M. Britannica vecchi, per non dire antichi, dibattiti sulla democrazia, sulla sua natura, sulle sue ragioni, sui suoi limiti. Alcuni temi risalgono addirittura a Platone e possono compendiarsi nella domanda: perché quando è in gioco la nostra salute ci affidiamo al medico mentre quando si tratta di politica, ovvero di affari di Stato, votiamo per il «primo venuto», capace di incantarci con la sua demagogia? Recentemente a riattualizzarli sono stati statisti, scienziati, premi Nobel: sarebbe anche legittimo far votare il popolo su questioni grosse e complesse, hanno cantato in coro, ma solo dopo un confronto ampio e approfondito sulla posta in gioco, in maniera che a scegliere siano i cervelli e non le pance (Amartya Sen). Sennonché chi stabilisce se il confronto c'è stato davvero e se è stato sufficiente? Ma, soprattutto, in base a quali parametri dovrebbe definirsi abbastanza approfondito? Nel 1948, forse, gli argomenti a favore del Fronte popolare sostenuti non dai trinariciuti di guareschiana memoria ma da raffinati intellettuali, lettori di J. S. Mill e di John Dewey erano senz'altro più elaborati di quelli «rozzi e terroristici» avanzati dai nemici del Fronte. Fortunatamente vinsero i secondi e il nostro paese si risparmiò almeno quarant'anni di democrazia popolare.

Non pochi studiosi, convinti difensori della democrazia rappresentativa e critici severi di quella diretta, hanno sostenuto che se «la democrazia diretta non è la migliore risposta a problemi complessi», può tuttavia essere «uno strumento assai utile quando si tratta di decidere su temi relativamente circoscritti (come fu il caso del divorzio in Italia)» (Angelo Panebianco). Sembra ovvio, ma «sfortunatamente» non lo è. Aborto e divorzio, infatti, erano oggetto di scelte semplici e relativamente circoscritte solo per chi ragionava come Emma Bonino o Gabrio Lombardi (líder máximo della crociata antidivorzista): in realtà, ponevano non pochi problemi a chi avesse riflettuto sulle loro implicazioni etiche e sociali. All'epoca votai con la Bonino ma senza nascondermi che ogni scelta politica (presa dal popolo o dai suoi eletti) comporta sempre degli «inconvenienti». In democrazia, le tesi in competizione sono come due pugili sul ring, a nessuno dei quali è concesso vincere per Ko ma solo ai punti. Non c'è legge indipendentemente dai poteri legittimi previsti per promulgarla che non abbia aspetti negativi e, se la si approva, è perché si ritiene che gli aspetti positivi prevalgano sugli altri. L'immortale Alexis de Tocqueville scriveva di non amare la libertà di stampa ma di ritenerla inscindibile dalla democrazia liberale: «Confesso scriveva nella Democrazia in America del 1835 - che non ho per la libertà della stampa quell'amore completo e immediato che si accorda alle cose sovranamente buone per loro natura. L'apprezzo per i mali che essa impedisce, molto più che per il bene che essa fa». Credo che si possa dire della maggior parte delle leggi che approviamo: riguardino la proprietà dei suoli o i contratti di lavoro, il fisco o la scuola.

Il problema suscitato dalla Brexit, per la maggior parte di quanti sono intervenuti a elogiare o a criticare gli inglesi, è se in una decisione epocale come quella che contrapponeva il leave al remain, la decisione spettasse alla democrazia rappresentativa o alla democrazia diretta. «Sfortunatamente è stato rilevato - il ricorso alla democrazia diretta per fronteggiare problemi complessi segnala spesso un fallimento della democrazia rappresentativa: è l'espediente a cui certi governanti ricorrono quando il sistema rappresentativo non riesce a decidere». E più ancora più drasticamente: «Sembra il massimo dell'espressione democratica, la parola al popolo, come la scelta tra Gesù e Barabba. E invece è l'espressione basica e universale della democrazia che cerca se stessa, quando i rappresentanti non sono in grado di elaborare una proposta politica convincente, si spogliano della loro responsabilità e delegano la scelta ai cittadini, saltando i parlamenti e i governi per raggiungere una vox populi dove fatalmente si mescola la ragione e l'istinto, l'emozione e la frustrazione, l'individuale e il collettivo» (Ezio Mauro). Sarà pure così, ma non è scorretto far credere che in Inghilterra si sia data la parola al demos su una mera faccenda di «politica estera» per l'incapacità della classe politica di prendere una soluzione (impopolare, in ogni caso)? Mi sembra ineludibile la domanda posta da uno studioso di diverso parere, «è al popolo o no, è agli elettori o no che spetta l'ultima parola sulle cose importanti che li riguardano? E ai primissimi posti tra questi non c'è forse la costruzione europea? E se questa con i trattati di Maastricht, di Lisbona e con la moneta unica, ha previsto la cessione proprio di parti rilevantissime della sovranità, è davvero così assurdo pensare che il popolo avrebbe dovuto, o debba, dire la sua?» (Ernesto Galli della Loggia).

Non va dimenticato che, nel Risorgimento italiano, la scelta tra l'annessione all'Italia e la conservazione dei vecchi staterelli preunitari venne affidata ai plebisciti, giacché in questione era l'allargamento della «comunità politica» (del «territorio» nazionale), non il confronto tra i diversi programmi politici che avrebbero dovuto ispirare il «regime politico».

Che quei plebisciti fossero manipolati è fuori questione ma, nondimeno, erano l'omaggio del vizio alla virtù, la riaffermazione del principio che sono i popoli a dover dire quanto grande vogliono che sia la «casa comune», mentre sono i suoi rappresentanti a stabilire poi quali forme di governo siano più adatte ai loro bisogni e alle loro esigenze.

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