Zitti, pure il silenzio è musica 100 anni ribelli di John Cage

Musicista fondamentale del ’900, per Schönberg era "un geniale inventore". Nel 1952 l’esecuzione di "4’33’" con un pianista immobile sulla tastiera

Zitti, pure il silenzio è musica  100 anni ribelli di John Cage

Nessuno conosce le regole meglio di chi è sregolato. Perciò John Cage, che adesso avrebbe (quasi) cent’anni, è il compositore del Novecento che le ha imparate più a fondo e che meglio è riuscito ad annientarle. Il compositore del non suono. Una contraddizione in termini, se non altro perché ha ispirato i grandi senza ritenersi un grande, anzi disprezzandosi, da Lennon a Duchamp a Zappa fino a Thurston Moore dei Sonic Youth. Lo descrive benissimo uno che l’ha incontrato tante volte «ma non l’ho mai intervistato», ossia Kyle Gann, compositore e musicologo, per vent’anni critico musicale del Village Voice e ora autore di questo centratissimo Il silenzio non esiste (Isbn, pagg 176, 28 euro) pronto a uscire in Italia tra pochi giorni. Serve a capire meglio il secolo di cui siamo figli. In fondo tout se tient e l’acme artistico di John Cage è stato alla Maverick Concert Hall, una specie di grande fienile a sud di Woodstock, stato di New York, che nella sera del 29 agosto 1952 ha ospitato la prima della sua «4’33’».
Com’è andata?
Molto semplice: il pianista David Tudor si è seduto al pianoforte, ha chiuso il coperchio della tastiera, e ha iniziato a guardare un cronometro. Per due volte, ha alzato e ha riabbassato il coperchio. Le pagine dello spartito erano vuote. Lui immmobile. Dopo 4 minuti e 33 secondi, che equivalgono a 273 secondi (riferimento allo zero assoluto: - 273,15 °C), Tudor si alzò e fu abbracciato dagli applausi. C’è un prima e un dopo quella data. Uno dei «dopo» è stato proprio a poca distanza dalla Maverick Concert Hall, in un prato grande che nel 1969 ha cambiato il corso del rock e quindi del costume e della società. A Woodstock il suono ha dunque avuto le sue massime apoteosi: quella evidente, e clamorosa. E quella seminascosta, ma altrettanto silenziosamente clamorosa. John Cage era figlio di un inventore fallito (creò anche il sottomarino che resisteva più di tutti sott’acqua ma lasciava filtrare un po’ di bollicine e quindi fu scartato dal governo Usa) e a lungo fu considerato un fallito anche lui. Vagò il mondo, si sposò, poi ammise di essere omosessuale e iniziò un menage a trois che lo condusse ad accettare che, sì, Merce Cunningham era il compagno della sua vita, proprio lui, uno dei creatori della modern dance. Non si separarono mai più. Invece John Cage si separò spesso dalle sue opinioni. Le fece crescere. Le accettò evolute. E oggi noi ci accorgiamo che sono nostre senza neppure sapere che vengono da lui. Nel 1933 si presentò ad Arnold Schönberg, l’inventore del metodo dodecafonico, uno dei grandi del Novecento, che accettò di dargli lezioni gratis tanto era bravo ma poi ammise di essere su di un’altra strada: chi fa musica deve avere il senso della melodia. Cage no. La melodia, per Cage, è una pertinenza, un optional della musica. E se ne accorge quando entra per la prima volta nella camera anecoica dell’Università di Harvard, stanza completamente insonorizzata nella quale è possibile ascoltare il silenzio. «Però udii due suoni, uno alto e uno basso. Così domandai al tecnico di servizio perché, se la stanza era tanto a prova di suono, avevo udito due suoni. Rispose: “Il suono alto era il suo sistema nervoso in funzione, quello basso il suo sangue in circolazione”». Il silenzio non esiste. L’intuizione di Cage, che è arrivata dopo decenni di studi con la First construction in metal (con percussioni improprie come cerchioni di auto, latta e tazzine, autentica pietra miliare anche della musica industrial) e il «piano preparato» (con una piastra di metallo sulle corde), è un assunto ormai filosofico e arricchito poi dall’assorbimento del dadaismo e dalle discipline Zen. Qualcuno lo può bollare con snobismo come una «merda d’artista». Ma è centrale nell’arte sonora del Novecento. È la musica che fa la natura. E la musica non è imitazione della natura. Il virtuosismo è periferico e il silenzio comunque non esiste perché anche l’ambiente è suono. «Dopo 4’33 la mia musica è nata per non interrompere quel pezzo». John Cage era una meteora impazzita. Visse, stravisse e soffrì. Venne in Italia nel 1958 e sbarcò addirittura a Lascia o raddoppia come «esperto di funghi». Vinse 5 milioni di lire e, consegnandoglieli simbolicamente, Mike Bongiorno disse che sarebbe stato meglio «che la sua musica andasse via e lei restasse qui». Un altro giornalista italiano scrisse, con il provincialismo tipico di tanta critica degli anni Sessanta, che il suo viso «ricordava gradevolmente Frankenstein».

John Cage morì a New York nel 1992 dopo aver vissuto le proprie miserie e aver sublimato le proprie intuizioni. Ed è uno dei tesori del Novecento perché, anche chi non lo conosce, ancor oggi passa irrimediabilmente attraverso di lui. E ha ascoltato il suo suono senza neppure mai averlo sentito nominare.
Noi, insomma.

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