Uno spettro si aggira nel dibattito cultural-politico italiano: il cinquantenario dellinvasione sovietica dellUngheria. Vi sono stati numerosi articoli e interventi pregevoli: Mario Pirani sulla Repubblica, una lettera inedita di Imre Nagy sul Corriere della Sera, e altro ancora. Anche libri interessanti. Ma alla discussione manca un elemento: la risposta al perché, dopo la tragedia ungherese, il Pci non solo sia riuscito a reggere limpatto, ma sia arrivato, ventanni dopo, al 35 per cento dei voti. Senza rompere con gli invasori di Budapest e i loro collaboratori: ancora a metà degli anni Ottanta, eletto segretario del Pci, Alessandro Natta «pubblicamente» preferiva il rapporto con i comunisti ungheresi a quello con i dissidenti.
Oggi tutti sono consapevoli delle dimensioni etiche poste dallinvasione sovietica. Nelle autobiografie recentemente pubblicate, non solo il riformista Giorgio Napolitano ma anche i sempre-comunisti Rossana Rossanda e Pietro Ingrao raccontano con abbondanza di aggettivi le dimensioni della tragedia e il rammarico per non aver potuto fare niente per evitarla o attenuarla. Pentiti, stupiti, rammaricati, non aiutano, però, a riflettere su come loro e tanti altri dirigenti comunisti riuscirono a tenere insieme una bella fetta della società italiana che aveva visto, grazie alle prime tv dellepoca, la brutalità dei sovietici, che aveva avuto, poi, rapporti con migliaia di profughi magiari, rifugiatisi anche nel nostro Paese. O meglio, Ingrao e la Rossanda, una spiegazione la danno: la presenza del nemico. Certo lUnione sovietica era quello che era. Ma «il nemico», i padroni, la Cia, limperialismo americano, la minaccia fascista erano peggio.
Napolitano ha fatto un passo in avanti assai più serio: ha detto che non solo Pietro Nenni aveva avuto ragione. Ma anche che il governo italiano «centrista» di allora aveva avuto ragione a stare con gli insorti di Budapest. Il problema non era solo quello della disputa nella sinistra, ma lo scontro tra due sistemi: quello liberale delle società occidentali e quello illiberale delle società del socialismo reale. Questa impostazione «storiograficamente» consente di fare chiarezza. E di spiegare che quando si prendono le distanze da Palmiro Togliatti non lo si fa perché cè una versione migliore del comunismo che il capo del Pci non fu capace di realizzare. Ma perché Togliatti, pur il più intelligente dei comunisti, era interprete di un movimento che in quanto tale è fallito e comunque va rifiutato. Non esiste un «comunismo migliore»: il movimento politico costruito sotto la guida di Lenin è quella roba lì. Un sistema di violenza politica, di terrore rivolto verso la società (interna o esterna come nel caso ungherese) sia pure al fine conclamato di costruire un mondo migliore, un uomo nuovo, un ordine meraviglioso.
Naturalmente solo gli ingenui considerano la storia come una serie di complotti di malvagi: la crescita di un forte movimento comunista che in più di un caso sopravanza o eguaglia il precedente, democratico movimento socialista, una cultura politica che a un certo punto governa un terzo dellumanità, non derivano la loro forza dalle pure elaborazioni di singoli «cattivi». Nascono grazie ad alcuni fatti storici: la crisi del parlamentarismo ottocentesco, il macello della Prima guerra mondiale, le lotte anticoloniali. È così che prende il via il movimento concreto del comunismo con le sue caratteristiche: di cui quella fondamentale è il rapporto con Mosca. Quando Belgrado o Pechino rompono con lUrss, il loro tentativo è di costruire un modello analogo di potere, non di rompere le logiche di quello vecchio.
Se le dinamiche della storia mondiale spiegano il comunismo internazionale, non lo fanno però a sufficienza per la persistenza dellinfluenza comunista nella società italiana anche di fronte a tragedie come linvasione dellUngheria. Il partito comunista francese, che pure ha dallinizio un insediamento con radici storiche (si pensi solo alla Comune di Parigi) non solo non raggiunge mai i livelli più alti del Pci ma evapora negli anni Ottanta. Così i comunisti spagnoli che pure sono la forza più organizzata nella lotta al franchismo.
La lettura degli sconvolgimenti del 56 deve servire anche a capire perché le cose sono andate così da noi, perché in una società «libera» un movimento che pure sposa una causa tragicamente impopolare riesca non solo a reggere ma anche ad avanzare. Naturalmente conta linsediamento nella società, nella Cgil, nella Lega delle cooperative, nei municipi: il senso di comunità non solo politica dellappartenenza al Pci è stato a lungo formidabile. E lo sradicarsi da questa comunità, psicologicamente lacerante. Conta la genialità di Togliatti nel costruire un rapporto con intellettuali di valore, nellarruolarli nel suo partito, nel selezionarli tra i più brillanti del fascismo. Conta il peso dei comunisti nella fondazione della Repubblica: nella resistenza, nella Costituente, nel rilancio economico. Contano gli errori degli altri lungo tutto il Novecento: dalla Prima guerra mondiale al fascismo. Le difficoltà delle forze liberaldemocratiche a darsi un profilo netto di fronte alla qualità politica dei comunisti. La timidezza della borghesia, dopo le tentazioni mussoliniane. Il fatto che la Chiesa per salvare il regime democratico debba assolvere una funzione di supplenza nel 1948. Sono tanti i motivi per cui lo shock per il 56 a un certo punto si ferma e il Pci ritorna ad avanzare.
Tra le cause cè anche quella, decisiva, che Gianpaolo Pansa ha chiamato La grande bugia: la potestà da parte dei comunisti italiani (un po come oggi gli islamisti in Francia) dinterdire alcuni argomenti. Come oggi a dire che Maometto promuoveva guerre di annessione religiosa si corrono rischi, così alcune verità sgradite al Pci non potevano circolare o, se lo facevano, era a rischio e pericolo di scomunica: parliamo, dopo il 47, di uninterdizione intellettuale, per chi osava esporsi. Interdizioni certamente anche ben controbilanciate da quelle anticomuniste: in diversi casi efficaci sul piano economico (peraltro la controdiscriminazione tende a sparire negli anni Settanta), ma che non determinavano quel senso di inferiorità morale che riuscivano a imprimere le maledizioni del partito comunista.
Quelli della mia generazione ricordano un giornalista socialdemocratico, Romolo Mangione, dellUmanità, certamente non aiutato dal cognome, che osava incalzare nelle tribune politiche Togliatti sul tema della libertà nei Paesi socialisti e sulla repressione in Ungheria. Eravamo ragazzini, e abbiamo ancora la visione di un signore distinto e raffinato (Togliatti) che metteva a posto un selvaggio (Mangione) che alzava la voce. Questa limpressione che ricevemmo allora (e contò non poco sulla nostra formazione). Luso dei congiuntivi prevaleva senza remissione nelle anime giovanilmente semplici (e un po snob) sulluso delle libertà. Naturalmente il popolo anticomunista, sempre maggioritario in Italia, si parlava, e tanto. Sentiva profondamente la tragedia ungherese. Ma usava una lingua che non penetrava lattenzione degli intellettuali, dei giovani curiosi, di chi cercava il senso delle cose. Un po una lingua quechua di incas dominati dalle élite spagnole. Soprattutto dopo gli anni Settanta, i circoli intellettuali che non si sono sottomessi alla lingua della Grande bugia sono stati assai pochi. I ciellini, il Giornale di Indro Montanelli, lelaborazione craxiana. Dalle altre parti, anche quando non ci si comprometteva e si testimoniavano posizioni diverse, si preferiva non sfidare quei tabù che davano alla fine al Pci il potere di battesimare chi era presentabile e chi no. Così il «mafioso» Andreotti poteva diventare uno statista. Il «reazionario» Montanelli apparire improvvisamente la voce più libera del giornalismo italiano. E così via.
La Grande bugia che grazie alla sapienza politico-culturale comunista paralizza la verità sulla resistenza, è quella che consente anche di rimuovere di fatto dai cuori, se non dalle menti (o viceversa), la tragedia ungherese.
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