Cinema

Splendida, sacra e sola. Greta Garbo unica per tutti

Fra le due guerre mondiali fu un simbolo planetario. Poi il ritiro da "eremita di mondo"

Splendida, sacra e sola. Greta Garbo unica per tutti

Per quanto sullo schermo ridesse poco (è una leggenda anche questa, ma con un fondo di verità), Greta Garbo - pseudonimo di Greta Lovisa Gustafsson (Stoccolma, 1905 - New York, 1990) - aveva un notevole senso dell'umorismo. A una vecchia amica che, esasperata dai suoi «no», aveva detto di darle «una sola ragione convincente» per non accettare il suo invito a pranzo, aveva replicato: «Non mi sono fatta la barba»... Per quanto abbia passato tre quarti della sua vita nascondendosi ai riflettori, alla stampa, alla gente, in realtà fu «un'eremita di mondo». Andava al cinema, a teatro, a cavallo, in spiaggia, a cena, a feste, in barca, aveva amici, sapeva divertirsi. Sgusciava dentro e fuori palazzi, ristoranti, case, taxi, imbarcazioni...

Che fosse un mito, ne era perfettamente consapevole. Che di «divina» ci fosse soltanto lei, anche. A un giornalista che le chiese se sentisse in Marlene Dietrich una possibile rivale, replicò tranchant: «E chi è questa Marlene Dietrich?». Certo, la Dietrich era una leggenda, ma tra la leggenda e il mito rimane quel qualcosa di indefinibile che fa la differenza. Come ha scritto un critico, la Marlene «angelo azzurro» venne spesso definita «la Garbo tedesca», ma nessuno scrisse mai che quest'ultima era «la Dietrich svedese»...

Sulla sua vita sentimentale-sessuale si sa moltissimo, ma in realtà si sa ben poco. Fu scoperta da Mauritz Stiller, che era omosessuale, fece coppia, al cinema e in camera da letto, con John Gilbert che emanava testosterone da tutti i pori, ebbe amori celebri etero, Stokovski, Remarque, e omo, Beaton, il conclamato lesbismo di Mercedes Da Costa non venne ricambiato con la stessa intensità, a giudicare dalle lettere che la Garbo le indirizzò e che lei monetizzò con una clausola che ne impediva la pubblicazione sino al Duemila e dove però di sesso non c'è traccia. Più che di rapporti fisici, probabilmente la Garbo andò sempre in cerca di qualcuno che si prendesse cura di lei, un po' come una regina che ha bisogno di una corte e dei suoi favoriti per rendere la corona meno pesante da sopportare. Aveva avuto il suo primo amante a 15 anni, allora come oggi l'età del consenso in Svezia, conosciuto il primo successo cinematografico a diciotto, era arrivata a Hollywood diciannovenne, la Hollywood-Babilonia dei produttori e dei divani dei produttori, dei registi e delle stelline dei registi, dei contratti capestro: non parlava inglese, non aveva istruzione né cultura, era sola. Sotto questo punto di vista, la solitudine è stata la vera compagna della sua vita, artistica, sentimentale. «La fama porta sempre solitudine. Il successo è gelido e solitario come il Polo nord» dice in Grand Hotel, dov'è una danzatrice classica sul viale del tramonto e stanca di vivere. Non era solo finzione cinematografica.

Ventotto film, metà muti, metà parlati, ma pochi che valga veramente la pena ricordare, sedici anni o poco più di carriera, nell'arco di tempo che va fra le due guerre, dal 1925 al 1941, per la precisione, come scrive Robert Gottlieb in questa bellissima biografia (Garbo, Il Castoro, pagg. 438, euro 28, traduzione di Anna Carbone), «ovunque si guardi la Garbo è nella mente, nel cuore e nei sogni della gente». È nei sogni erotici del Robert Jordan di Per chi suona la campana, di Ernest Hemingway, in quelli alcolici del Don Birnam di Giorni perduti, di Charles Jackson, è un'apparizione in I naufraghi di Graham Greene («Amo il mare, disse la bionda con la voce alla Greta Garbo»), una strofa nelle canzoni di Cole Porter e di Eric Maschwitz («The smile of Garbo and the scent of roses/ The waiters whistlings as the last bar closes»), di Gershwin («and Greta Garbo gave me her key»...).

Tanto presente in un periodo di tempo in fondo breve, quanto presenza assente, ancora più irresistibile, lungo un'esistenza che procederà per circa mezzo secolo e di cui Gottlieb ci dà conto anche grazie a 250 splendide immagini. Lo fa con uno stile limpido e mai corrivo, senza birignao da cinefilo e senza nessun gusto per il sensazionalismo: il suo è il miglior libro e probabilmente il libro definitivo su quella che resta l'icona per eccellenza del Novecento.

Intelligentemente, Gottlieb coglie due spartiacque nell'attività cinematografica della Garbo. Il primo avviene con La regina Cristina, quando da oggetto di desiderio si trasforma, e come tale viene vista dal pubblico, in qualcosa da venerare, «un gioiello con una montatura splendida» dirà qualcuno all'epoca, ma in sostanza il passaggio da semplice star a sacro simbolo. Il secondo ha a che fare con il suo ritiro dalla scena. Aveva 35 anni e il futuro non avrebbe potuto che offrirgli ruoli di mezza età, ma, come si può vedere, basta andare su YouTube, nei provini girati nel 1949 per La duchessa de Langeais, quando di anni ne aveva 44, «era ancora incantevole e aveva ancora il sorriso più naturale e affascinante del mondo». Il suo, del resto, non fu un rifiuto netto, un dire «ho chiuso e non parliamone più»: In realtà «si vide sottoporre un progetto dopo l'altro» e «la varietà e la profusione sono tali da disorientare». Il regista Alexander Korda le propose una Elisabetta di Baviera, David O. Selznick L'amante di Lady Chatterley, G.W. Pabst l'Odissea, nel duplice ruolo di Penelope e di Circe, Orson Welles quello della Duse, il produttore Walter Wanger, lo stesso della Regina Cristina, La duchessa de Langeais prima citata, dall'omonimo racconto di Balzac: fu il progetto che andò più vicino a realizzarsi e saltato unicamente per complicazioni finanziarie.

Un elemento certo del suo non tornare più sullo schermo è che la Garbo, a differenza di molte altre grandi attrici, non aveva bisogno di lavorare e che nel tempo i suoi ruoli avevano finito con l'identificarsi in sé stessa: sostanzialmente, lei era la Garbo e, sottolinea Gottlieb, «un film della Garbo doveva essere incentrato sulla Garbo»... Nella sua semplicità, la spiegazione che diede all'attore inglese David Niven sul perché avesse messo di recitare, è esemplare. «Avevo fatto abbastanza facce»: il che era anche un modo di dire che l'unica faccia rimasta disponibile non era più all'altezza delle altre... Il suo essere unica si trasformò in condanna e per certi versi la costrinse a mettersi alla finestra della vita. Per guardare senza essere vista, per evitare di vedersi avendo la paura di non riconoscersi.

È un dato di fatto che tutta la sua esistenza fu una serie di contraddizioni. Avrebbe voluto essere una grande attrice di teatro, e in Svezia, lo fu di cinema, e a Hollywood. Voleva essere indipendente artisticamente, ma sia il suo primo pigmalione, Stiller, poi gli studios della M.G.M. ne determinarono il percorso cinematografico. Visse negli Stati Uniti, ma senza alcun legame con un Paese che, al di fuori della California e di New York, non la interessò mai: i suoi legami più stretti furono tutti europei. Famosa per i suoi straordinari costumi di scena, nella vita vestiva in modo informale, sciatto si potrebbe dire, se non fosse che era lei a riscattare ogni sciatteria... Come scrive Gottlieb, «lasciava senza fiato per la sua bellezza, il suo mistero, il suo fascino, la sua discrezione; offriva al mondo emozioni intense e grande piacere estetico, ma mai sé stessa. In qualche modo, invece, imponeva al mondo un'idea di sé e la sua smania per la privacy acuiva in tutti la sua distanza dalla vita vera. Forse in realtà non era un tipo così interessante... chi può dirlo?».

Il suo fascino era fatto di tante piccole-grandi cose, imperfette, ma uniche. La bellezza, di un tipo tutto particolare. Un fisico alto e da spalle larghe, seno piccolo, grandi mani e piedi in proporzione, non ambigua, terribilmente femminile e tuttavia sfuggente, eterea e non carnale. La voce, poi, una bionda con la voce di una bruna, profonda e malinconica, non cristallina e non gutturale, gelida, ma attraversata da vampe di calore, seducente senza volerlo, scostante senza sforzo. Il modo di muoversi, un incedere rallentato ma deciso, una sorta di souplesse fatta di leggeri passi lunghi, da puledro di razza più che da felino.

E infine, e naturalmente, il volto, un viso di neve luminoso, modellato come quello di una divinità pagana, una sorta di lago limpido con grandi occhi neri a fare da àncore, moderno e eterno.

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