Un guardiano molto gentile, nel gabbiotto dell’entrata, preferisce fornirmi la piantina: «Non può sbagliare. Noi siamo qui, vede? Adesso va dritto per il viale centrale, poi alla seconda rotonda gira a sinistra. È il settore numero 74. Ufficialmente si chiama così, ma per tutti è il Campo dei bambini... ».
Cimitero Maggiore, Milano: in questa placida e silenziosa metropoli dell’Aldilà, c’è un luogo dove riposano le creature che non hanno avuto il tempo di stancarsi. Poche ore, pochi giorni, pochi anni di vita. Lo sappiamo bene quanto insulsa ed effimera sia la nostra permanenza terrena: rispetto all’eternità, anche gli ottantenni e i novantenni sepolti poco più in là hanno vissuto un solo attimo. Ma nemmeno questa lapidaria verità riesce in qualche modo ad attenuare la pena diversa, molto più stringente, come una soffocante tenerezza, che aleggia nel settore numero 74, il Campo dei bambini.
Qui, solo tombe mignon. Sembrano anch’esse uscite dal mondo di Barbie. Aveva ragione il guardiano: non si può sbagliare. Chi mai riuscirebbe a sbagliare, davanti allo spettacolo inverosimile di girandole colorale, orsi chicco, pinocchi e ufo-robot nel regno del pianto. È un viaggio discreto e istruttivo dentro il candore assoluto, là dove le miserie degli uomini e la corruzione della vita non sono mai arrivate.
Al numero 6, lungo il viale, c’è Alessia Pia. Una sola data: 17 maggio 2006. E si può intuire perché. Una bambola di pezza rosa, un sole di peluche, un coniglio. Tra i giochi, l’epitaffio meritato in poche ore di passaggio: «Nel cuore di mamma e papà è custodito il tuo ricordo per sempre. Sarai il nostro piccolo angelo». È una costante del cimitero infantile: lo strano accostamento tra la rapidità di queste vite e l’eternità del ricordo. Per sempre, per sempre, per sempre: genitori e fratelli, nonni e zii, scrivono immancabilmente per sempre.
Poco oltre, una grande farfalla colorata, due angeli di gesso e due «ciucci». Due tremendi ciucci che mai nessuno penserebbe di vedere in un cimitero, disposti con cura e con studio in una composizione d’amore tragico. È una tomba a due posti. Asia e Alessia, nate e morte in un giorno di giugno dell’anno scorso, continuano nell’eternità il proprio destino gemellato, come se l’accidentale parentesi terrena nemmeno fosse riuscita a turbare questo idillio indissolubile. A mamma e papà, per il momento, deve bastare l’idea malinconica di quello che sarebbe stato, contemplando questi due ciucci mai usati, intonsi tra le margherite di una tomba bambina.
Lo scenario è dolcissimo e surreale, quasi una riproduzione fuori contesto degli scaffali «Toys», quei centri specializzati che presto subiranno l’ennesima carica dei nostri figli, alla ricerca di idee per la lettera da inviare alla premiata ditta del dono celeste, da Santa Lucia alla Befana, da Babbo Natale a Gesù Bambino. Anche qui, tra abeti altissimi e monumenti di granito, un tripudio di palloni interisti, di ferrari telecomandate, di biancaneve e sette nani, di cicciobelli e di apimaie. Ce li hanno portati soprattutto i fratelli e le sorelle, scrivendo sulle dediche tutte le loro premurose intenzioni consolatorie. Così giocherai anche tu. Questo è il pallone con cui avremmo fatto insieme un sacco di gol...
Una tomba bellissima, custodita da gnomi in ceramica, è quella di Martina. Nata il 16-9-1993, morta il 5-1-2002. La signorina sorride a fatica, nel suo bell’abito fiorato, dalla fotografia: tutta la sua vita dev’essersi rivelata un’immane fatica, per via di problemi evidenti. Ma la passione e la cura che traspaiono dalla sua tomba sono qui a dimostrare quanto rimpianto e quanta nostalgia sia comunque riuscita a lasciare, nonostante le costrizioni di un fisico che noi ultimamente chiamiamo diversamente abile.
E poi la sequela dei nomi stranieri. Anche il Campo dei Bambini conferma nel modo più sinistro la statistica nazionale, che ci vede sempre più surrogati dagli immigrati persino nel ruolo di genitori procreatori. In fila uno dopo l’altro, i Matteo e i Fabrizio sono a stretto contatto con i Joshua e i Ryan, in un muto asilo che la morte ha davvero reso universale. Una grande scritta dorata su sfondo nero, appena accanto all’orso infradiciato della piccola Giada, consegna al Dio di tutti e di sempre il piccolo El Mazaly. I caratteri sono in arabo, ma in questo luogo nessuno riuscirebbe mai a provare diffidenza e inquietudine. Non sarebbe male, come idea: qualche summit del grande scacchiere internazionale andrebbe organizzato in questo campo numero 74. Anche solo per renderci conto, anche solo per specchiarci nella nostra inarrivabile stupidità d’adulti...
Tomba 292. La tomba di Francis. A lui concessi cinque anni: 2000-2005. La sua lastra di marmo è sovraccarica: giochi, macchinine, fiori, candele accese. Seduta sul gradino di fronte, la nonna. Legge un libro di preghiere, sotto il sole tiepido del primo pomeriggio. Si chiama Ninita: è filippina, ma vive in Italia da vent’anni. Delle storie ascoltate nel Campo dei bambini, tutte ovviamente e sacrosantemente degne di una Spoon River baby, scelgo la sua. Non perché sia la «più» qualcosa: solo perché questa donna ha le tante rughe del dolore, ma anche il lieve sorriso della consolazione. Aveva un figlio unico che era venuto con lei in Italia, all’età di dieci anni. Questo suo figlio si era poi sposato con una ragazza, anch’essa filippina. Da loro era arrivato Francis. A nonna Ninita sembrava di avere tutto per essere felice.
Francis ride dalla fotografia, dentro il costume di carnevale: è un orso bianco con due orecchioni improbabili. La donna lo guarda serena e mi termina il racconto: «Francis purtroppo aveva l’asma. Faticava a respirare. Una sera, è morto. Il suo papà, mio figlio, non sopportava il dolore. Tutti i giorni veniva qui a parlare con il suo bambino. Gli portava giocattoli e fiori. Poi, l’anno dopo, è partito per un viaggio. L’hanno trovato morto a Messina. Non abbiamo mai saputo perché: hanno detto arresto cardiaco... Ora io e sua moglie siamo sole. La domenica veniamo noi da Francis: lei è stata qui stamattina presto. Il papà è già sepolto nelle Filippine. Un giorno, quando anche noi torneremo là, gli riporteremo Francis. Così finalmente staranno insieme... ».
La saluto. Mi stringe la mano forte, con un largo sorriso. Dice persino grazie, come se starla ad ascoltare fosse un regalo imprevisto. Grazie a lei, rispondo: sono sicuro che Francis si sente coccolato da una brava nonna.
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