Mercoledì diciassette giugno del millenovecentosettanta. Stadio Azteca di Città del Messico. Punizione di Gianni Rivera, goffo tentativo di Sigfried Held che, di mezzo petto e fianco, devia e colloca il pallone sul piede sbagliato, che sarebbe il sinistro, di Burgnich ma Tarcisio ci provò lo stesso, quel giorno, contrariamente ai suoi compagni che avevano accettato un milione di lire per calzare le scarpe da gioco firmate Adidas, lui, il figlio di Ermenegildo militar soldato dell'esercito austriaco nella prima grande guerra, non si arrese al patto commerciale, aveva firmato un contratto con l'Atala e dunque con la scarpa sinistra calciò forte e diritto, sorprendendo Maier, la Germania intera e soprattutto i propri compagni azzurri che mai lo avevano visto superare la dogana di centrocampo, lo soffocarono di abbracci accompagnate da risate incredule.
Perché Tarcisio così era fatto, lo chiamarono roccia e contro la sua parete andava a sbattere chiunque si avventurasse in quell'area a rischio che era la terza linea della nazionale e innanzitutto della grande Inter, dunque davanti a Giuliano c'era Tarcisio e poi Giacinto e quindi Aristide e ancora Armando, nomi leggendari che non hanno più eredi nella folkloristica onomastica contemporanea. Era fortissimo di carattere, fiero e austero lo sguardo, il sorriso sapeva di ghigno, i muscoli dei quadricipiti e il torace non erano lucidate dalle palestre, portavano il segno distintivo del maso friulano, del rispetto del lavoro, sua padre alla Snia di Torviscosa gli aveva fatto intendere che nulla finiva sulla tavola se non fosse stato sofferto.
Il cielo sopra Tarcisio si fece altissimo qualche giorno dopo quel gol sbilenco ai tedeschi. La finale contro il Brasile lo chiamò ad affrontare sua maestà Edson Arantes do Nascimento, la fotografia storica inquadra entrambi nell'aria messicana, Pelé salta più in alto delle nuvole e sopra la testa di Tarcisio che prova, con un'ultima smorfia del viso, ad allungarsi oltre la montagna ma ha sbagliato il tempo, forse, il passo, chissà, è gol del re, è gol del Brasile. Non fu certamente quell'episodio a cambiare la vita di un friulano di porfido, l'Inter di Herrera e Moratti lo rese celeberrimo, assieme a Facchetti, in coppa strana, perché il ragazzo di Ruda leggeva libri prima di addormentarsi, il suo sodale di stanza, Giacinto, sfogliava pagine di sport. Non erano tipi da parole e discorsi vuoti, difficile incontrare un friulano che si lasci andare alle emozioni e a comportamenti stravaganti, se dici Burgnich pensi a Zoff e poi a Bearzot e ancora a Capello, infine a Pizzul che portò via il posto a Tarcisio in un provino al Catania.
Storie oggi improbabili, verissime allora, in un football che poteva produrre fenomeni come Gigi Riva e campioni come Tarcisio, nessun tatuaggio per individuarli sul campo di pallone ma gesti e gesta, vapori di spogliatoio, profumi di olio canforato e chewing gum e sospensori a proteggere il respiro e l'esistenza. Tarcisio Burgnich è stato uno dei garanti di quell'epoca davvero lontana, silenzioso come sapeva essere un atleta teso alla prestazione, tenace come uomo prima e come difensore poi, mai esposto ai riflettori ma, nella penombra, importante, decisivo. Questo tempo cattivo si sta portando via le figurine del nostro meraviglioso album, Mariolino, Mauro, Paolo, Pietro, Pierino, Diego, non c'è nemmeno bisogno di aggiungere i cognomi, sono stati compagni di viaggio in mille trasferte, libri da ascoltare e racconti da leggere.
Tarcisio, afflitto dal male, si era messo da parte, come accadeva nelle fotografie ufficiali dell'Inter: aspettava di vedere dove si piazzasse l'Armando e lo affiancava, fu Picchi a chiamarlo appunto roccia dopo che aveva visto ruzzolare, come una palla respinta da un muro, un piccolo attaccante della Spal, si chiamava Carlo Novelli e si era avventurato nel domicilio del friulano. Tarcisio agiva per legittima difesa. Il minuto di silenzio è l'omaggio migliore per chi nel silenzio ha saputo diventare un campione.
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