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Addio a Casalini, il coach dell'anima

Aveva 70 anni, con l'Olimpia Milano sul tetto d'Europa nel 1988

Una notte sbagliata fra tuoni e fulmini e si è fermato il cuore di Franco Casalini, allenatore con una radiosa alba ed un veloce tramonto, dopo aver vinto fra il 1987 e 1989 coppa Intercontinentale, coppa campioni e scudetto con l'Olimpia Milano che gli davano orgoglio come i 4 titoli giovanili nel regno di Rubini prima e Cappellari poi, nobile cavaliere a difesa del castello nell'età dell'oro di Dan Peterson. Aveva 70 anni, milanese, nato il 1° gennaio 1952. Se ne è andato da solo perché gli piaceva il suo eremo, se ne è andato senza un abbraccio, ma era nella sua natura.

Lo possiamo dire per avergli inflitto la sventura di essere stati fra i suoi allenatori alla Canottieri Milano, una squadra di guastatori da dove è uscito anche qualche discreto giocatore. Lui, però, era già allenatore nell'anima, l'unico che riuscisse a sopportare e, magari compatire, il giovane tecnico che riportandolo a casa se la prendeva con lui per le colpe dell'intera squadra.

A 19 anni si era già impegnato ad esplorare con i ragazzi della Social Osa la vita affascinante e difficile in panchina. Il suo modo d'insegnare, imparato nella scuola di Mario Borella sui Navigli, gli aprì le porte del regno rubiniano, taciturno come il suo amico e compagno di lotta Guglielmo Roggiani, fedele nella difesa della stanza dove il Principe Rubini relegava i turchi fumatori in via Caltanissetta, con Faina e Cappellari che si bruciavano i vestiti pur di negare che stavano peccando.

Un generale che sapeva vivere la battaglia e la gioia della trasferta, carte in mano, appunti presi in fretta, gara meravigliosa di battute con Dino Meneghin, pensieri lucidi per ridare a Mike D'Antoni la gioia di andare sul podio e dirigere il concerto di quella squadra che prima di arrivare alla felicità aveva passato ore a rimuginare aspettando l'alba sul Naviglio mentre Sergio, il padrone del Torchietto, sfinito, lasciava le chiavi per la chiusura del locale a quella banda di sognatori infelici.

Non tremò quando Dan Peterson, l'uomo di Evanston che lo aveva aiutato a capire come fosse diversa la vita da sognatori cosi diversa da quella di pragmatici vincenti già ad una finale giovanile nel Veneto, aveva deciso che la sua storia in panchina era finita. Non aveva più energie il nano ghiacciato, che tanto ghiacciato non era, si fece da parte, ammettendo solo molto più tardi il suo errore. Cappellari si chiuse in una stanza e non sprecò tante parole: «Franco tocca a te, la società farà muro, tu vai tranquillo e in squadra la trimurti del successo, D'Antoni, Meneghin, McAdoo, ti aiuterà». Lo fecero Premier e gli altri fino alla notte di quello scudetto livornese che fu il grande dolore di Bucci e Di Raffaele, ma anche l'ultimo hurrà per quella Olimpia. L'anno dopo Zorzi lo mandò fuori negli ottavi dei play off a Reggio Calabria. Non ebbe fortuna né a Forlì né a Roma. La grande saga era finita e anche per lui la vita di allenatore anche se fra il '99 e il 2000 ha vinto due coppe svizzere con il Vacallo. Studi, televisione, vita randagia.

Caro Franco dormi tranquillo e al risveglio saluta tutti i nostri amici che troverai nel campionato di basket fra angeli e diavoli, abbracciali tutti cominciando dal Giancarlo Sarti che ci ha lasciato qualche giorno fa.

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