«Ancora una volta l'elogio della disciplina e della volontà. Ancora una volta il riconoscimento che la Juventus, parlando poco e sottovoce, come s'usa nelle buone famiglie, non perde perché non si disperde. Le vittorie, per essa sono numeri da mettere in fila e da sommare, non serbatoi di chiacchiere. È una squadra, quindi una società, che quando vince esulta, quando perde riflette. Altre delirano quando vincono, si flettono quando perdono. Il mestiere, per la Juventus, significa questo: il domani di una vittoria può chiamarsi sconfitta, ma il domani di una sconfitta deve chiamarsi rivincita... Ma la Juventus ha avuto e detto qualcosa di diverso. Ha detto che le partite si possono vincere o perdere in campo a seconda della legge variabile che presidia i giochi di palla, si tratti delle palline d'avorio o della palla di cuoio. Ma ha detto che i Campionati si vincono e si perdono, essenzialmente, nella sede sociale. Le vittorie sportive non sono soltanto fatti tecnici, o estetici. Sono fatti morali. Sotto questo punto di vista la Juventus fa bene a tenere cattedra. Bene a se stessa, bene ai suoi avversari, bene allo sport nazionale».
Bruno Roghi, eccelso giornalista, direttore delle tre testate sportive italiane, così scrisse e descrisse il quinto scudetto conquistato dalla Juventus nel Trentacinque. Che cosa è cambiato da allora? Nulla, le parole di Roghi possono essere ribadite oggi, quella Juventus è questa Juventus, allora fu Edoardo Agnelli, oggi Andrea, memoria del nonno che scomparve nel pomeriggio del quattordici luglio del Trentacinque, in un incidente aviatorio, come titolò La Stampa, mentre la sua Juventus, di cui era presidente, era in viaggio verso Praga dove avrebbe affrontato lo Sparta per la coppa Europa. Fu quello il quinto campionato vinto consecutivamente dalla squadra bianconera, il sesto per Edoardo che aveva incominciato la sua avventura nel Ventitré, in coincidenza con la creazione dello scudetto da apporre sulla maglia. Il primo titolo arrivò al terzo anno di presidenza, il primo di Andrea Agnelli, al secondo anno. Una storia continua e che continua, una dinastia che, come scrisse Roghi, se perde non si disperde. Un secolo e più di football con la stessa didascalia. Andrea Agnelli non ha il carattere estroverso che apparteneva allo zio Gianni, dal padre Umberto ha ereditato la discrezione che viene però stappata, come da una bottiglia di spumante, al momento del gol, là dove il presidente si fa tifoso, scatta in piedi, abbraccia sodali e colleghi di lavoro, con lui Allegra, la madre, a conferma di un filo che si è finalmente raggomitolato dopo che qualcuno aveva tentato, appena riuscendovi, a strapparlo. Tifoso e imprenditore, dunque, allevato alla corte del padre e della madre e, nella Juventus, da Antonio Giraudo.
Andrea Agnelli ha raccolto la società e la squadra, nel momento più delicato, forse il peggiore, dopo lo scandalo del duemila e sei con le improbabili scelte societarie che seguirono. Esattamente dieci anni dopo quei fatti, dimostra che la Juventus sa e può vincere i propri titoli sul campo e non in tribunale, li conquista con il gioco e con i conti in ordine, li pone sulla maglia mentre mille nemici debbono ammetterne la supremazia.
Andrea Agnelli sembra un bambino di quarant'anni, un ragazzo barbuto con la sigaretta in bocca, come, un tempo, si usava fare per imitare gli adulti. Agnelli presidente è cresciuto bene, non in fretta, sogna, progetta, vince. La sua Juventus è come quella di suo nonno Edoardo. Sempre l'inizio di una nuova storia. Spenta una sigaretta ne accenderà un'altra.
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