Marco Lombardo
nostro inviato a Parigi
Carlos Moya in effetti è un allenatore un po' atipico: lo è diventato quasi per caso, al fianco di quello che una volta lo vedeva come il suo idolo. Ed è ancora in formato giocatore, con quel fisico e quel carisma che ha fatto (e fa) impazzire le fan di tutto il mondo. Pure quando vinse era il 1998 il Roland Garros: «Questo posto è speciale, anche se nel corso di una carriera alla fine hai molti tornei che ti restano nel cuore. Amo molto l'Australia, per esempio». E l'Italia, con cui ha un legame speciale da sempre. Anche ora che è testimonial di Lavazza, il caffè dei quattro tornei dello Slam: «Quello è uno dei piaceri che mi legano al vostro Paese. Ho molti amici italiani e molti bei ricordi». Carlos Moya insomma è l'artefice della nuova vita di Nadal.
Qualche mese fa Rafa era infortunato, ma tu eri sicuro: «Tornerà numero uno».
«In realtà non potevo averne l'assoluta certezza, ma conoscevo la sua qualità di tennista e di uomo. La sua caparbietà nel cercare l'assoluto. Sapevo che se fosse stato sano al 100% avremmo rivisto la sua versione migliore».
Lo conosci da quando era piccolo.
«Sì, c'è amicizia tra noi. E profondo rispetto, anche dei ruoli».
Per questo sei riuscito a cambiare anche il suo modo di giocare.
«Non ha più 20 anni, non può correre da una parte all'altra del campo. Gli abbiamo chiesto di diventare un po' più aggressivo e di accorciare la durata degli scambi. La sua esperienza e la sua conoscenza del gioco ha fatto il resto».
Cosa lo rende speciale?
«Il fatto di essere normale: una grande persona prima di essere un grande campione. È uno che sa sempre lottare, che sa vincere ma sa anche perdere. È unico».
Vent'anni dopo: com'è cambiato il tennis?
«Ai miei tempi arrivavamo al torneo con quattro racchette e un paio di scarpe. Adesso c'è un team con il coach, il preparatore, tante persone e tanti materiali. E c'è la cura dell'aspetto fisico: per questo la carriera dei giocatori si è così allungata».
Ma c'è anche più maleducazione, forse.
«Quella c'è sempre stata. Però diciamo che i giovani sono un po' meno rispettosi».
Per questo servono coach come Moya?
«Io mi ci sono ritrovato a farlo, davvero non ci pensavo. Ho il privilegio di essere al fianco di uno dei più grandi della storia di questo sport: diciamo che sono un apprendista anch'io, sto sfruttando questa esperienza giorno dopo giorno. Anche se è davvero difficile pensare di poter fare il coach di qualcun altro...».
E se fosse un tennista italiano?
«Perché no? Ma per la verità non conosco tanto i giovani. Per me l'Italia è ancora Gaudenzi o Camporese; e adesso Fognini, Seppi e Bolelli. Simone per esempio aveva tutte le qualità per arrivare ai top: non so cosa sia successo».
Come vedi il futuro del tennis?
«Rafa ha detto che gli piace molto Shapovalov e io sono d'accordo: è un gran talento e ha molta personalità. Noi intanto abbiamo l'Accademia Nadal a Manacor, speriamo di creare i tennisti del futuro. Uno come Jaime Munar, che è stato un anno da noi e qui ha battuto Ferrer».
Ci sarà insomma un nuovo Nadal?
«Questo è impossibile. Ma ci saranno tennisti con i valori di Rafa, questo è certo. E comunque lui andrà ancora lontano: è un giocatore moderno, senza infortuni ce lo godremo ancora a lungo».
Per
finire: cosa dice coach Carlos del tennista Moya?«Che ho avuto una carriera e una vita fantastiche. Rimpianti? Se uno dovesse pensare a quello che non ha vinto invece di quello che ha vinto, sarebbe davvero matto».
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