Bilbao e Barcellona, Biscaglia e Catalogna, terre dure e orgogliose di un'altra Spagna, squadre di football, di ricchezza differente, reduci entrambe da un trionfo europeo che le accomuna. I baschi hanno demolito il teatro dei sogni, l'Old Trafford di Manchester, l'United si è disunito, battuto 3 a 2 nella sua magica casa, Bilbao ha già venduto tutti i biglietti per la partita di ritorno (prezzo massimo 100 euro!). Il Barcellona non fa notizia quando vince, se Messi ne segna cinque e il totale fa sette e l'avversario è tedesco, del club dell'aspirina di Leverkusen, tutto questo non fa ancora prima pagina perché la notizia vera spunta controllando le formazioni delle due squadre spagnole. Dieci dei quattordici calciatori utilizzati da Guardiola contro il Bayer Leverkusen provengono dal settore giovanile blaugrana, soltanto Dani Alves, Mascherano, Adriano e Keità fanno parte della tribù forestiera alla quale aggiungere Sanchez e Abidal, non inseriti nella serata dei magnifici sette. Storicamente il Barcellona ha sempre protetto il vivaio del suo territorio, anche ai tempi di Kubala e di Suarez («su ventiquattro nello spogliatoio almeno diciassette o diciotto erano di quella zona») ricorda e conferma il grande Luis Miramontes il quale spiega il fenomeno attuale: «E' stato Cruijff ad accentuare questa scuola, ha voluto che sin dalla squadra più giovane del club si giocasse nella stessa maniera e si andasse alla ricerca del ragazzi originari di questa terra. Il Real Madrid, dopo l'epoca fortunata della "quinta del Buitre" (la leva dell'avvoltoio, il soprannome dato a Butragueño) composta dal biondo attaccante con Michel, Sanchis, Martin Vasquez, Pardeza, ha scelto un'altra strada, quella dei procuratori e dei numeri uno di ogni dove.
L'Athletic Bilbao conferma e consolida la sua fede antica secondo la quale possono essere tesserati per il club soltanto i calciatori nati o formati nelle società del territorio Euskal Herria, che comprende Biscaglia, Gipuzkoa, Araba, Nafarroa, Lapurdi, Zuberoa e Nafarroa Behera. Una bandiera sola, dunque, mentre il resto del football è un alveare di lingue e di culture, di mercenari e di abitudini, di religioni e di educazione. Il calcio globalizzato ha frullato e violentato il senso di appartenenza a una realtà non soltanto geografica ma storica. Il caso Bosman ha rappresentato la svolta, la libera circolazione dei calciatori è stata una giusta vittoria sindacale ma una sconfitta del patrimonio tecnico delle singole federazioni. Non si tratta di una considerazione sulla razza ma sull'origine, una connotazione etnica che finisce per tutelare una scuola, può essere quella italiana, quella inglese, quella di qualsiasi paese che ha scelto di tollerare un traffico che sta diventando insopportabile, anche a livello patrimoniale. Le nazionali ne pagano le conseguenze ma sta accadendo anche un fenomeno parallelo, le squadre inglesi sono in crisi piena, messe male in Euroleague e con una sola rappresentante ancora in corsa in Champions, ma con l'handicap, il Chelsea contro il Napoli. Così come l'Apoel di Nicosia che ha eliminato l'Olympique di Lione, non aveva un solo cipriota nella formazione che comprendeva due greci, tre portoghesi, cinque brasiliani e un macedone, sulla linea dell'Inter del triplete con il solo Materazzi a difendere l'anagrafe italiana.
Di certo i casi del Barcellona e dell'Athletic Bilbao dovrebbero costituire un momento di riflessione per i dirigenti del football. La cantera catalana continua a sfornare elementi talentuosi ma attenti a non restare affascinati dal colore della maglietta e dal club di origine: il momento che stanno attraversando a Roma Bojan e Luis Enrique (sostituito a Barcellona da due catalani doc, Sergi e Jorquera) lo confermano.
La nostra realtà offre uno scenario diverso, i grandi club trascurano il settore giovanile se non in casi di emergenza (la Roma durante l'esclusione dal mercato europeo per il caso Mexes e la Juventus retrocessa in B) e preferiscono fare circolare il denaro all'estero piuttosto che alimentare il vivaio e la rete degli osservatori. Così smarrendo l'identità, anche tecnica, di un movimento che ha vinto quattro titoli mondiali.
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