Sport

Il basket del dopo virus da ripensare in italiano

Vivai, nuovi format e status: una rivoluzione culturale per cambiare un torneo esterofilo

Il basket del dopo virus da ripensare in italiano

Ripensare il basket nostrano. Sfruttando la lunga sosta dovuta al virus. E immaginandolo più aperto agli italiani e soprattutto ai giovani: vuoi perché rappresentano per definizione il futuro e vuoi perché, per dirla con Luca Banchi - nel 2014, coach scudettato con Milano - «in queste settimane durissime stanno dimostrando di avere grande disciplina e desiderio di riscatto. La loro voglia dovrà essere il motore della nostra rinascita».

«Il presupposto è che gli italiani della serie A hanno appena compiuto un gesto d'amore, rinunciando al 20% dei loro stipendi - racconta Alessandro Marzoli, presidente della Giba ovvero l'associazione giocatori -. Non era scontato che accadesse». Per di più senza tirarla troppo per le lunghe: bravi loro, insomma. Proiettati adesso verso la stagione 2020/21: sperando di avere più spazio e confermando il trend registrato nella stagione appena conclusa, durante la quale sono rimasti sul parquet per il 36,14% del tempo complessivo (Brescia guida la fila, con quasi il 51%), in aumento rispetto al 32,12 e al 31,89 del recente passato. «Se ci saranno difficoltà a fare arrivare atleti dall'estero, altri ragazzi potrebbero essere coinvolti al massimo livello. Per tutti servirà un periodo di adattamento: in termini immediati magari i risultati non arriveranno, dopo sì. Porto l'esempio di Ricci: si pensava faticasse in A2 ma con lavoro, dedizione e fiducia è arrivato fino alla Nazionale».

«Per dare più spazio agli italiani, intanto bisognerebbe abbattere i costi di gestione delle società - propone Banchi -. È indispensabile tornare al semiprofessionismo, come ha fatto la pallavolo. Stando così le cose, a pari rendimento uno straniero, che beneficia anche dei contratti di immagine, costa quasi la metà di un italiano». In soldoni: se con un contratto da professionista un italiano guadagna cento, il costo per una società è di circa 225. In caso di semiprofessionismo, lo stesso cento' corrisposto al giocatore porterebbe la società a spendere 125-130. «Fatto quello - ancora Banchi - deciderà poi il mercato chi e quanto giocherà. Nessuno avrà in ogni caso il posto garantito. Servono fame e dedizione, ma sono convinto che abbiamo le risorse tecniche per salire di livello: tra serie A e A2 i buoni prospetti non mancano. Bisogna però avere la forza e il coraggio di dare loro la giusta opportunità». Riformando il sistema, anche: «Penso a una serie A di 14-16 squadre che funzioni da vetrina e basta, con la A2 intesa come Lega di formazione e certamente non a 28 squadre. La mia idea è che ogni società della massima serie abbia almeno un club satellite dove far crescere e migliorare i ragazzi tra i 18 e i 22 anni, con forme di tesseramento snello e la possibilità di passare da una categoria all'altra anche nel corso della stessa stagione: in Germania funziona, non vedo perché da noi non dovrebbe».

«Tutti gli allenatori di livello sarebbero felici di lanciare un paio di italiani ogni anno - aggiunge Vitucci, coach di Brindisi -. Il posto però va guadagnato: bisogna avere la voglia di investire su se stessi, magari guadagnando meno un anno per poi passare all'incasso la stagione successiva. A Brindisi ci abbiamo provato e, nei casi di Moraschini (oggi a Milano), Zanelli e Campogrande, ci siamo riusciti.

È però anche necessario essere sulla stessa lunghezza d'onda con la società, perché con tanti giovani in campo i risultati non sempre arrivano: anni fa, quando ero a Treviso, a metà stagione ci rimisi la panchina perché il rendimento di ragazzini come Alessandro Gentile, Hackett, De Nicolao e Motejunas non era all'altezza».

Commenti