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Dennis Bergkamp all'Inter: il tulipano appassito che rifiorì a Londra

Fenomenale con l’Ajax, quasi impalpabile in nerazzurro: alle radici del gigantesco flop del fantasista olandese

Dennis Bergkamp con la maglia dell'Inter: un flirt mai decollato
Dennis Bergkamp con la maglia dell'Inter: un flirt mai decollato

Quando compone il numero di telefono le dita fremono, viaggiando a scatti. Strappare questo prodigioso olandese alla Juventus è un momento succoso. Ernesto Pellegrini lo assapora avidamente, prima di svenarsi: il bonifico all’Ajax ha su impressa una cifra che all’epoca procura vibrazioni ai polsi. Si parla di 18 miliardi delle vecchie lire. Con Dennis Bergkamp, seconda piazza nella classifica dell’ultimo pallone d’oro (terzo due anni prima), arriva anche Wim Jonk, coinquilino ideale e complementare. Il primo ne conosce vizi e virtù, può svaporargli intorno mentre quello ingaggia battaglia e quindi, con formidabile maestria, procedere ad infilzare lateralmente gli avversari. Il presidente si sfrega le mani: ha pagato i due olandesi 25 miliardi (anche se da Amsterdam fanno sapere che i conti non tornano) e per la stessa cifra ha infilato nel motore della Beneamata anche tre ulteriori cavalli, gli italiani Festa, Paganin e Dell’Anno. Ora fa correre un braccio intorno al collo del tecnico, Osvaldo Bagnoli: sì, lo scudetto torna ufficialmente contendibile.

Non può sapere, il nostro, che l’avventura di Bergkamp all’Inter è destinata a risolversi in un affare penoso. Il fantasista ciondolerà per il campo per i successivi due anni, incisivo come una lama di sole che scivola su una compatta banchina antartica. Gli unici squilli, la versione originale di quel talento diluito in fretta, saranno contemplabili soltanto in Coppa Uefa: Dennis ne fa 8 e trascina la squadra a sollevarla. Un rigagnolo d’acqua dentro un biennio desertico. In Serie A è un figurante di lusso. Arranca stremato dalla velleità delle sue intuizioni. Inabissa le sue vele olandesi, un tempo lucenti, nella marmaglia tattica che lo circonda. Arriva morbido nei contrasti e tenero sottoporta. Lascia intravedere scampoli di levatura superiore, senza tradurli in sortite efficaci. Il pubblico nerazzurro è subito disilluso. Il patto infranto.

Vaticinare la sciagura, tuttavia, sarebbe stato esercizio impervio. Bergkamp arrivava da un settennato regale ai lancieri, dove era stato eletto erede di Van Basten. Aveva segnato 122 gol in 239 partite e, più di ogni altra cosa, sfoggiato una cifra tecnica che si collocava tre spanne sopra la media. Non è dunque questione di un’improvvisa miopia da parte di Pellegrini e compagni. La classe non la spremi via con un trasferimento. È un coacervo di fattori, piuttosto, a generare la iattura.

ALLE ORIGINI DELLA SCIAGURA

La prima barriera, a dire il vero quella più penetrabile, è linguistica. Dennis inizia ad imparare l’italiano nell’estate del 1993, ma comprensione ed espressione non fluiscono esattamente come i suoi filtranti nel 3-4-3 di Van Gaal, dove lui giocava vertice alto del rombo. Il gap non è roba risibile e contribuisce, almeno inizialmente, a isolarlo dal gruppo. Più i dialoghi con il connazionale Jonk si fanno fitti, più si allunga la distanza con gli altri compagni. Certo, il verbo calcistico è materiale universale fatto di connessioni non verbali, ma le cose non decollano ugualmente.

Un altro fattore che concorre a rendere friabile la sua parentesi italiana è quello determinato dal carattere. Taciturno, introverso, raramente sorridente: nemmeno il miglior vinavil esistente riuscirebbe a cementarlo davvero al gruppo. Al punto che di lui Ruben Sosa dirà: “Non ride mai e non la passa mai”.

Il dilemma autentico che finisce per appassire questo rigoglioso tulipano olandese risiede però ancora altrove. L’approdo in Italia, dopo aver trangugiato calcio totale per anni, assomiglia ad uno strampalato allunaggio. Negli schemi di Bagnoli, Dennis è costretto a stare sempre spalle alla porta e, se non gioca con il prediletto Jonk, gli è impossibile cinguettare con i compagni. La squadra non si muove all’unisono, come quel magnifico Ajax da cui lui proveniva, capace di comprimersi e dilatarsi armonicamente. Bergkamp si sente, piuttosto, relegato su un atollo. Naufrago irrecuperabile su un’isola che nessuno ha stampato sulle rotte. “La squadra era spezzata a metà – ricorderà più tardi – e tra noi attaccanti e tutti gli altri c’erano decine di metri di campo. Questa cosa mi ammazzava ogni volta. Attaccavamo sempre in due contro cinque. Qualche volta si inseriva un centrocampista e io dicevo: ok, ora siamo in tre. Ma che si fa? Dove sono le linee di passaggio?”.

Non va meglio l’anno successivo, quando in sella all’Inter sale Ottavio Bianchi e il club sfila gradualmente nelle appassionate mani di Massimo Moratti. Gli equivoci, tattici ed esistenziali, si susseguono. A fine stagione gli vengono fatte grandi promesse per provare a convincerlo che quello può ancora essere il suo ecosistema, ma Dennis – che nel frattempo ha maturato la celebre decisione di smettere di volare in aereo – decide che è giunto il momento di salpare. “Passavo dall’atmosfera dell’Ajax, che era gioiosa e coinvolgente, ad una sorta di noioso lavoro d’ufficio. Non era il mio modo di intendere il calcio”.

La contraddizione appare ancor più lampante quando i compagni maggiormente empatici, Fontolan, Bergomi e Paganin, provano a pungolarlo: “Sappiamo che hai più talento di Van Basten, ma devi aiutarci di più in campo. Se ti impegni le cose andranno meglio”. Insomma, un invito a pedalare. Cortocircuito stridente, perché coincide con una lettura sballata della natura di Bergkamp: Dennis è un sublime risolutore, non un manovale qualunque.

Il suo soggiorno all’Arsenal chiarirà il concetto e amplificherà il rimpianto. A Londra sarà interprete di un calcio sontuoso, regale. Thierry Henry, uno che dalle parti di Highbury ha maturato un certo credito, in seguito dirà: “Il più forte compagno di squadra? Se parliamo degli esseri umani, escludendo Messi, dico Dennis senza bisogno di pensarci un istante”.

Del senno di poi però sono rigonfi i libri di storia.

A certe latitudini, a volte, i tulipani non sbocciano mai.

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