Messe insieme con lo scotch le sue Olimpiadi, il Brasile era a caccia anche di un uomo simbolo, ma finora ne ha trovati due, e sono donne. Marta e Rafaela sono l'orgoglio di un Paese che faticosamente sta portando avanti questa edizioni dei Giochi, probabilmente la più «sgarrupata» della storia voluta da De Coubertin. L'importante però non è solo partecipare, ed ecco che allora per vincere bisogna affidarsi alle garotas che si sono fatte strada tra le mille difficoltà di un Paese tanto affascinante quanto visto dal Resto del mondo un po' assurdo.
Marta e Rafaela sono vicine quanto tanto distanti, ma in questo momento sono le due anime di una torcida che ha avuto poche occasioni per sventolare le sue bandiere. Rafaela Silva è stato il primo oro, e forse non poteva essere che così, per una bambina cresciuta nella Città di Dio una delle favela più pericolose di Rio e diventata donna perché aveva una palestra giusto a un passo da casa sua. Lì dentro c'era un tatami e il judo è diventata la sua vita e l'orgoglio per tutto il popolo. Così, quattro anni dopo essere stata squalificata a Londra per una mossa irregolare, si è presa la sua rivincita scritta sul tatuaggio che si porta in giro: «Solo Dio conosce i sacrifici che ho dovuto sopportare».
Rafaela da bambina giocava a calcio fra le baracche e le pallottole, la fortuna è stato appunta il judo, che qualcuno dopo l'onta del 2012 voleva farle abbandonare, minacciandola pure con degli sms minacciosi. «Scimmia, vergogna» dicevano, e lei invece adesso - dopo essersi abbandonata in lacrime tra le braccia del suo allenatore - è diventata l'idolo di un Paese in cui la vera differenza non è la razza ma il posto da dove arrivi: «Dedicato a chi voleva farmi smettere, io sono più testarda di voi».
Testarda come Marta Vieira da Silva, Marta per tutti, Marta per il popolo del pallone che l'altra sera l'ha osannata durante la partita della Selecao, di quella maschile però. Perché Neymar, il volto predestinato del Brasile sta facendo cilecca, e al secondo 0-0, questa volta contro l'Irak, la gente dalle tribune ha cominciato a urlare «altro che Ney, vogliamo Marta», lei che ha il record di essere stata premiata per 5 volte di fila calciatrice dell'anno dalla Fifa (come Messi), lei che viene chiamata «il Pelè in gonnella», lei che il suo Brasile lo sta portando verso l'oro a suon di gol.
Marta è l'altra faccia, quello di una star, quello ricco di una carriera vissuta spesso lontano da casa, perché comunque per il futèbol feminino la vita è dura anche nella patria del calcio. «Ma l'importante è crederci, essere caparbi, non mollare mai. Nel mio paesino, Dois Riachos, quando era piccola i maschi non mi volevano. Dicevano: tanto vince sempre lei, e allora io prendevo il pallone e li scartavo tutti». Li ha praticamente seminati, cominciando con una maglia del Vasco da Gama e partendo per un sogno che l'ha portata a girare gli Stati Uniti e, ora, l'Europa.
Marta gioca in Svezia, ma il suo cuore resta qui in Brasile, che l'ha eletta la sua eroina preferita e le ha messo Rafaela sullo stesso piedistallo. Due facce del Brasile e una stessa bandiera: perché come recita la scritta dello stemma nazionale, Ordem e Progresso non può che essere una cosa da donne.
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