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Calcio e politica, Mondiale a due facce

Il Qatar si prepara alla kermesse. Con lo sport utile per ripulire l'immagine

Calcio e politica, Mondiale a due facce

Per gentile concessione degli autori e dell'editore.

Un'estate, un'avventura in più. Notti magiche inseguendo un gol. Ogni quattro anni Mondiali ed Europei hanno scandito l'esistenza di tifosi e appassionati. Un rito collettivo sempre in bilico tra l'estasi per un successo e la delusione per un'eliminazione precoce, dove la collocazione temporale in pieno periodo estivo sembrava essere una delle poche certezze rimaste. È sempre stato così, sin dal Mondiale in Uruguay nel 1930 e sin dal primo Europeo trent'anni dopo. Il 2022 invece è l'anno zero, il titolo di nazionale campione del mondo viene assegnato in inverno e per la prima volta in Medio Oriente, nel raggio di settanta chilometri tra stadi avveniristici e le aride dune del deserto. Al centro della mappa c'è il minuscolo Qatar, Paese ospitante di un evento planetario che rappresenta l'apice dell'espansione nell'ultimo ventennio delle monarchie del Golfo nel calcio e in tutto il mondo sportivo.

Un'ascesa irrefrenabile a cui è stata attribuita l'etichetta di sportwashing, termine comparso per la prima volta nel 2015 sui media americani e britannici. Indica la spiccata tendenza a sfruttare lo sport per ripulire l'immagine di un Paese agli occhi del mondo ed è stato inventato in occasione degli European Games in Azerbaigian, anche se il concetto già da tempo era stato fatto proprio dalle realtà del Golfo attraverso uno strategico esercizio di soft power. Finalità geopolitiche, economiche e di branding che vanno oltre i novanta minuti di una partita di calcio, i giri sul circuito in un Gran Premio di Formula Uno o le medaglie assegnate per un Mondiale di atletica o ciclismo. Senza dimenticare l'eterna piaga delle violazioni sui diritti umani, più volte denunciata dalle principali organizzazioni internazionali come Amnesty International.

Contemporaneamente all'assalto verso il mondo dello sport guidato da Qatar, Emirati Arabi e Arabia Saudita, negli scorsi anni tutte le monarchie del Golfo hanno lanciato ambiziosi documenti programmatici finalizzati a emancipare le rispettive realtà dalla dipendenza dalle risorse naturali - come petrolio e gas - per dare vita a una diversificazione economica e a una maggiore apertura verso le nuove generazioni. Anche se, secondo Cinzia Bianco, ricercatrice ed esperta della regione del Golfo Persico per l'European Council on Foreign Relations, «la diversificazione è solo parte di una narrativa. Questi Paesi possono puntare solo sul soft power, che spazia dal loro ruolo globale di fornitori di energia al ruolo finanziario in tante organizzazioni internazionali fino al cosiddetto branding».

Il calcio e in generale lo sport hanno ormai virato verso un nuovo epicentro, tra sconfinate risorse economiche e delicati equilibri geopolitici.

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