Capitan Zanetti segreto: biografia da tifoso interista

Fazzo svela i dietro le quinte del suo ritratto del campione «Parla poco, è timido e gentile. Non cerca mai la polemica»

Capitan Zanetti segreto: biografia da tifoso interista

L'ultimo che avevo visto così da vicino era stato Boninsegna, quando Peppino Prisco dopo una partita mi aveva portato giù, negli spogliatoi di San Siro. Quasi mezzo secolo dopo, faccia a faccia con un altro mito: Javier Zanetti. E per quante rughe uno abbia sul viso e sul cuore, se è cresciuto a pane e Inter in quel momento gli tremano le gambe. Avevo davanti Zanetti, il capitano del Triplete. E sapevo che lo avrei visto e rivisto, avrei dovuto scavare a fondo nei suoi ricordi, cavarne storie, portarne a galla le emozioni. Io, il bambino cui una domenica i napoletani strapparono la bandiera nerazzurra che sventolava dal tram: e se lo ricorda ancora adesso.

«Vincere, ma non solo»: si chiama così il libro di Javier appena uscito da Mondadori, che insieme al mio amico Marco Mensurati di Repubblica abbiamo aiutato a scrivere. Fosse stato un libro di memorie calcistiche, sarebbe stato facile: registratore acceso, qualche domanda ad istradare la memoria, poi si trattava solo di trascrivere, spargere punteggiatura. Invece è un libro di riflessioni e di consigli, anzi di istruzioni per l'uso: uso dei rapporti umani, della gara, dell'ansia, delle sfide. In una parola, della vita.

Quando abbiamo iniziato a chiacchierare con Javi di questi temi non semplici, avevamo un punto di riferimento: William H. McRaven, l'ammiraglio americano che con il suo discorso sull'importanza di rifarsi il letto la mattina, poi tradotto e ampliato in un libro, è diventato un must planetario. Ma ci accorgemmo in fretta che con Zanetti lo schema non funzionava. McRaven è un militare, il suo verbo preferito è «dovere», ama declinare i verbi all'imperativo. Beh, ogni volta che portavamo a Javi una bozza la prima cosa che toglieva erano gli imperativi: via i «fate così, fate cosà». Al loro posto: «io penso cosí», «secondo me», eccetera.

All'inizio mi stupivo. Avevo così radicata in me l'immagine di Zanetti come incarnazione della leadership che mi spiazzava questa sorta di timidezza. Solo un po' alla volta, nelle lunghe mattinate faccia a faccia nella sede dell'Inter di corso Vittorio Emanuele, o nelle chiacchierate via Skype - io da una terrazza dell'Elba, lui da un punto qualunque tra il lago di Como e la pampa - ho capito che è proprio il suo carisma a rendere inutile l'esibizione muscolare. Quando Javi dice «non ho mai inteso la fascia di capitano come un megafono» dice qualcosa che pensa davvero.

Undici capitoli, undici temi su cui l'esperienza di Zanetti prima come calciatore e oggi come manager accompagna lungo i sentieri della vita. Non è un logorroico, per usare un eufemismo. A volte partiva come un fiume, a volte io e Marco dovevamo accompagnarlo con qualche fatica a dare forma ai suoi pensieri. Da bravi ghost writer, abbiamo evitato accuratamente il rischio di sostituirci a lui. Ma mi piace pensare che a volte la domanda giusta al momento giusto abbia aiutato anche lui a tirare fuori un ragionamento, un'idea di cui non era ancora compiutamente consapevole.

Non siamo diventati amici, dopo l'ultima chiacchierata ci siamo dati la mano sapendo che probabilmente non ci vedremo più. A me è rimasta l'impressione indelebile di un uomo che gronda di beni banali eppure oggi carenti: il buon senso, la serietà, l'educazione, il rispetto.

Quante volte, per dare pepe a un aneddoto, avremmo voluto fare nomi e cognomi, dare lo spunto per una polemica da usare per il lancio stampa. E tutte le volte, implacabilmente, Zanetti ha tirato una riga su nomi, cognomi, polemiche.

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