«Quando la storia incontra la leggenda, vince la leggenda» è una delle frasi più famose del cinema western, tratta da L'uomo che uccise Liberty Valance di John Ford. Il giusto incipit per raccontare un'epopea contemporanea. Poche squadre, infatti, hanno contribuito alla storia del campionato italiano, ma solo una è leggenda: la Juventus vincitrice di sei scudetti e di tre coppe Italia consecutivi. Così nessuno mai.
Il calcio d'inizio di questa incredibile avventura data 11 settembre 2011, Juventus-Parma, prima partita ufficiale allo Stadium, la nostra nuova casa. Dopo appena 16 minuti lancio geniale di Andrea Pirlo, quello dato per finito dal Milan, per l'inserimento del terzino svizzero Lichtsteiner, il primo di quattro gol che ci restituirono un po' di morale, dopo due annate disastrose, anche peggio della B, finite con altrettanti settimi posti. In panchina c'era Antonio Conte, ex capitano bianconero, a urlare, sbracciarsi, inveire e disperarsi per l'unica amnesia difensiva che ci fece subire il gol. In tribuna il giovane presidente Andrea, di nuovo un Agnelli, tifoso appassionato ancor prima che dirigente.
Nessuno, neppure il più ottimista dei tifosi, avrebbe mai potuto immaginare che in quel tiepido pomeriggio settembrino si sarebbe messa la prima pietra della leggenda che ci ha portati fin qui. Ogni annata sempre più esaltante: imbattibilità dello Juventus Stadium nel 2011-12 con scudetto strappato al Milan; conferma senza troppi sforzi l'anno dopo; record assoluto di 102 punti nel '13-14. Poi a luglio, e malamente, Conte abbandona il ritiro, dopo aver detto che non sarebbe stato possibile cenare con 10 in un ristorante da 100 e che bisognava aspettare molti anni prima di vedere una squadra italiana in finale di Champions. Ottimo motivatore, scarso veggente, non lo rimpiango.
Arriva Max Allegri, tra diffidenze e mugugni per il suo trascorso milanista. Con uno stile completamente diverso, serio professionista che non sente il bisogno di elevarsi a capopopolo, Max vince il terzo scudetto in scioltezza e al suo primo anno arriva, incredibilmente, fino alla finale di Champions a Berlino, vincendo la coppa Italia che ci mancava da un bel po'. Nel '15-16 cominciamo malissimo, a ottobre siamo dodicesimi in classifica, gli esperti dicono che il ciclo è alla fine. Ma già a febbraio siamo di nuovo in testa, si vince il campionato e ancora la coppa Italia. Il resto è cronaca, la terza coppa Italia di fila, ieri il 35° scudetto, e non ammetto obiezioni perché la matematica sul campo non è un'opinione, il 3 giugno un appuntamento che non riesco neppure a nominare, per via dell'ansia.
La Juventus, questa squadra, aggiungerei questa società, è diversa da tutte le altre perché ogni tifoso ha la sua Juventus. Altre, appunto, hanno fatto la storia: il Grande Torino innanzitutto, la Grande Inter di Herrera e Moratti (e non quella del più scandaloso sopruso sportivo che si conosca), il Milan di Silvio Berlusconi, di Sacchi, degli olandesi, il Napoli di Maradona. Di straordinarie Juventus ce ne sono diverse: quella del primo quinquennio negli anni '30, quella di Boniperti, Charles e Sivori, la Juve trapattoniana tra anni '70 e '80, prima autarchica, poi guidata dal genio di Michel Platini, quella del doppio ciclo di Marcello Lippi, culminata con la conquista della Champions e dell'Intercontinentale nel 1996 che ha un nome su tutti, Alessandro Del Piero, quella che avrebbe potuto essere, se non fosse stata interrotta, di Fabio Capello, una corazzata invincibile che nessuno riuscì a battere in partita.
Per me, quella nata nel settembre 2011 è la Juventus più forte di sempre, passata da Pirlo, Vidal, Pogba a Mandzuckic (il mio eroe), Dybala, Higuain, tanto forte da frustrare ogni sforzo di qualsiasi avversario. E non è affatto detto che sia finita.
Una squadra nata dal dolore e dalle ceneri. Una squadra di uomini veri che indossano il bianconero consapevoli del motto che ci rappresenta: fino alla fine. Di questi straordinari campioni, tutti meritevoli di citazioni, persino i terzi portieri o qualche bidone transitato allo Stadium (Anelka, Elja, Krasic, Bendtner), tre meritano l'encomio solenne: Gigi Buffon, Giorgio Chiellini e Claudio Marchisio, superstiti della stagione in serie B, consumatasi esattamente dieci anni fa. Buffon, portiere della Nazionale campione del mondo, aveva offerte da diversi club italiani e stranieri; invece decise di restare a Torino spiegando che era giunto il momento di restituire qualcosa a quella società che lo aveva fatto così grande. Lo ricordo bene, alla fine di Juve-Spezia, persa 2-3, sotto la curva dello stadio Olimpico, sventolare la bandiera bianconera insieme agli ultrà. Voleva dire: io ci sono e ci sarò. Chiellini era già tra i più forti difensori italiani, trasformato da terzino sinistro a centrale, incarnazione dello spirito bianconero del tackle furente, dell'abnegazione, del sacrificio e della serietà, che tra centinaia di partite ha avuto persino il tempo di arrivare alla laurea magistrale, mentre altrove navigano nell'analfabetismo. E se non ci fosse stata quella maledetta serie B, certo Marchisio non avrebbe trovato posto a centrocampo, sarebbe stato mandato altrove e non avremmo potuto ammirare uno dei playmaker più eleganti e completi, seppur fermato da un brutto infortunio lo scorso anno.
Godimento per gli occhi, nicciana volontà di potenza, la Juve dei sei
scudetti consecutivi è oggi una delle squadre più forti del mondo. Seguirla, amarla, gioire insieme a lei è l'unica cosa che davvero mi fa commuovere. Insieme ad altri 13 milioni di tifosi posso solo dire grazie. Grazie ragazzi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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