Chinaglia, la vita spericolata di un’icona del calcio romantico

Chinaglia, la vita spericolata di un’icona del calcio romantico

Penso che sia morto tenendo il capo appena piegato verso la spalla sinistra. Così faceva prima di un calcio di rigore, di un’intervista, di un sorriso, di un ghigno. Stavolta definitivamente. La vita di Giorgio Chinaglia è stato questa, di sghembo, mai retta davvero, anche quando calciava ferocemente un pallone, fosse sui verdi prati di Swansea, doveva aveva incominciato la sua avventura, prima con il rugby poi con il soccer, già alle prese con le risse e i castighi, passando qualche notte sul tavolaccio di una prigione militare, per trasferirsi in Italia sui campi polverosi di Carrara e poi con l’Internapoli per arrivare, infine, negli stadi illustri d’Italia, con la maglietta celeste della Lazio, prima di finire sotto i grattacieli di New York con i Cosmos di Pelè e Beckenbauer. Dopo, il buio. La Florida è stata la terra del suo ultimo sogno, lacerato da un infarto, mortale. Terra di fuga solitaria, di esilio, di vergogna, per nascondersi alla giustizia italiana, alla legge violata.
Ha deciso di chiudere con questa esistenza bellissima e, insieme, maledetta, il primo di aprile, il giorno degli scherzi che erano le sue abitudini, il modo di affrontare un avversario, un amico, giocando sempre, troppo. «Mio fratello è figlio unico perché è convinto che Chinaglia non può passare al Frosinone». Rino Gaetano gli aveva dedicato queste parole della canzone, quasi a ribadire l’imprevedibilità di un titolo, di una storia, di una esistenza, di un uomo. Avevo riascoltato la voce di Giorgione che commentava, insieme con Charlie Stillitano in una radio americana, la morte di Socrates. Il tono delle parole era raschiato, triste per la fine del brasiliano ma anche per altro.
Per i contemporanei Giorgio Chinaglia non esiste se non nelle note di cronaca giudiziaria, camorra, riciclaggio, mandato di cattura, un tentativo maldestro di scalare la Lazio di Lotito. Ma Long John, come lo avevano ribattezzato, rubando l’appellativo che fu di John Charles, è stato un calciatore vero, centravanti si diceva e si scriveva prima che i ruoli venissero manipolati, di potenza esplosiva e di tecnica imprevedibile, capace di gol prepotenti e di gesti acrobatici raffinati. Era lui la Lazio, assieme a Pino Wilson che si appalesava agli allenamenti guidando una Rolls Royce, era lui la Lazio insieme con Re Cecconi che per uno scherzo, forse non proprio uno scherzo, venne ucciso a pistolettate da un gioielliere, durante una finta rapina; era lui la Lazio insieme con Martini che pilotava gli aerei prima di darsi alla politica; era lui la Lazio insieme con Tommaso Maestrelli, l’allenatore che lasciò questo mondo, prima di viverlo tutto, per un male più oscuro della vita. Chinaglia e la sua squadra arrivarono allo scudetto giocando un football meraviglioso e pazzo come erano i suoi attori, come era il suo protagonista capocannoniere del campionato. Ferruccio Valcareggi se lo portò in nazionale già sapendo che avrebbe dovuto gestire un cavallo da palio e da gran premio. Il mondiale di Germania confermò la previsione, contro Haiti il nostro commissario tecnico, mentre la squadra stava sotto di un gol, decise di richiamare il centravanti per far posto a Pietro Anastasi; Chinaglia prese a correre verso lo spogliatoio, tenendo anche allora il capo chino sulla spalla, passò di fianco la panchina azzurra, Valcareggi candidamente, restando però seduto, allungò il braccio sperando in un saluto, Chinaglia lo mandò a spalare il mare, muovendo l’aria con la mano con segno di disprezzo. Toccò a Maestrelli recitare la parte del sarto, raggiunse il ritiro di Ludwigsburg, convinse Chinaglia a chiedere scusa, Carraro e Allodi avevano deciso di rispedirlo a Roma, Franchi e il segretario Borgogno mediarono, il vaffa di Chinaglia restò nella storia della nostra nazionale e di Uccio Valcareggi.
L’avventura americana fu colossale, i Cosmos erano i pionieri di uno sport sconosciuto, trascurato. Per cinque volte Chinaglia vinse il titolo di cannoniere, gli restò in gola la mancata partecipazione a «Fuga per la vittoria» il film con Stallone, Pelè e Bobby Moore. Di quei giorni yankee conservo la maglietta, bianca e verde, con il numero 9 e il cognome sulla schiena: «Ogni tanto ripensa a chi hai conosciuto» mi disse, sorridendo, con il capo chino a sinistra. Si possono ricordare i gol, mille, il pallonetto irriverente sulla testa dorata di Gianni Rivera, le notti di champagne, bulli e pupe, la moglie americana Connie, le bravate negli alberghi con i sodali biancazzurri, quella volta che ordinò a un compagno, dopo averlo riempito di denari, di andare all’edicola più vicina e di acquistare tutti, ma tutti davvero, i giornali e le riviste e ancora, i colpi di pistola per spegnere gli abat jour degli hotel, la follia consentita a chi vive in un mondo diverso da quello reale, quotidiano, normale e pensava di seguitare quell’esistenza irregolare.


Giorgio Chinaglia è morto nel giorno in cui se ne è andato Antonio Ghirelli che per sei anni fu il grandissimo direttore de il Corriere dello Sport. Di lui Ghirelli scrisse e raccontò la carriera migliore. Assieme, su sentieri diversi, lontanissimi, hanno chiuso l’ultima pagina di quel tempo. Un’altra fetta della nostra vita se ne è andata.

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