di Tony Damascelli
D i Paolo Rossi si sa. Pure di Tardelli e del suo urlo nella notte di Madrid. E della partita a scopa tra Pertini e i campioni. Tutta gente nota e ricordata, nei filmati, nelle fotografie. Ma trent'anni dopo l'undici di luglio dell'Ottantadue sarebbe, anzi è doveroso scrivere e dire di Gianni Brera, di Giovanni Arpino, di Mario Soldati, di Beppe Viola. C'erano anche loro, erano penne e teste, macchine per scrivere e sigari toscani, sigarette, pipe e litigi da osteria, bicchierate e occhi scavati dal sonno, baraccate notturne sul Barbacarlo, la torta meneghina e l'ultima di trotto a San Siro, parole e pensieri di un'epoca che è fuggita e non ha più eredi. Il calcio è cambiato, d'accordo, nella tattica, nella preparazione, nella sua scienza normale. Ma è cambiato, profondamente, il modo di scrivere e di raccontarlo, in breve: il giornalismo, la narrazione scritta e a voce. Il mondiale di Spagna fu il mondiale vissuto e «imparato» con Brera, con Arpino, con Soldati, con Viola, maestri, presidi, professori, compagni di viaggio e di racconti, sodali e complici.
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