Dieci anni dopo

Le donne a stelle e strisce furono catturate da quegli occhioni grandi e luminosi. Spuntavano dal casco di un ragazzo affondato nella Tyrrell buffa e sgraziata in griglia a due passi dal Caesars Palace, Las Vegas e dintorni. Perché la Formula uno non è pazza solo adesso, lo era anche nell’anno 1982, quando correva nel parcheggio dell’immenso hotel della capitale del gioco e Michele Alboreto da Milano, classe 1956, che non era pazzo, tutt’altro, andava a vincere la sua prima corsa al volante della monoposto del vecchio boscaiolo Ken. Quel giorno Michele stupì il mondo e un altro vecchio, un Grande Vecchio con gli occhiali scuri seduto a Maranello. Enzo Ferrari se ne innamorò un po’ lì e un po’ dopo, l’anno successivo quando, a Detroit, Michele vinse di nuovo, sempre su auto boscaiola e dopo il podio dichiarò più o meno questo: «In F1 ci sono diversi piloti italiani in grado di vincere ed è un peccato che non possano guidare una Ferrari». Furono parole che spinsero il Drake a scrivergli per spiegare il motivo per cui non voleva italiani. Alboreto rispose e da lì nacque un rapporto di profonda stima reciproca. Tempo qualche mese e sarebbe venuto meno l’antico veto. Il 26 settembre 1983 Maranello annunciava l’arrivo di Michele per la stagione seguente.
Dopo domani, lunedì, sono dieci anni che Alboreto non c’è più e c’è ancora. Perché in un giorno del 2001 su un fottuto circuito dimenticato dal Dio dei motori, il Lausitzring, Germania grigia, lo stesso dove Zanardì sarebbe pochi mesi dopo incorso nel suo drammatico incidente, Michele venne tradito dall’Audi R8 durante una sessione di test privati in vista della 24 Ore di Le Mans. Alboreto c’è ancora perché il suo talento, il suo stile, la sua disponibilità sono rimasti unici; e c’è ancora perché l’ultimo italiano a vincere su Ferrari fu proprio lui, anno 1985, vice campione del mondo al termine di una stagione in cui fu spesso al comando della classifica, un anno in cui lottò a lungo al vertice contro Prost e la McLaren-Porsche, un anno che si concluse - e non per colpa sua - con un festival di ritiri causati soprattutto dalla fragilità delle turbine. Un anno in cui disputò anche, sono parole sue, «la gara più bella, più entusiasmante». Successe a Monaco, secondo posto finale dopo un Gp thriller: in testa dopo il ritiro di Senna, poi lungo su una macchia d’olio, poi il rivale Prost al comando, la rimonta, il sorpasso e di nuovo primo, poi una foratura, ancora la rimonta e solo la pioggia a impedirgli l’ultimo affondo.
Sono dieci anni che Michele non c’è più ma c’è ancora perché il vero appassionato e i figli dei veri appassionati non possono scordare o non aver tramandato che cosa significò l’arrivo di Alboreto a Maranello per l’Italia che da anni attendeva un suo ragazzo sulla Rossa. Paragonato ad oggi, quel che accadde fu molto più catalizzante ed emozionante di quanto detto, scritto e filmato nei mesi scorsi su Valentino Rossi e la Ducati. Quel binomio fu molto più nazionale dei motori, fu tutto molto di più.
Sono dieci anni che Michele non c’è più ma c’è ancora perché il suo sito ufficiale, curato dalla moglie Nadia, parla di lui e perché i tifosi o i loro figli lo usano per scrivergli, lasciare pensieri, come ci fosse sempre un filo diretto. C’è chi ripercorre gare a cui aveva assistito in tv o in pista ai tempi e chi racconta quelle appena viste su you tube o nei dvd e chi non dimentica di averlo incrociato nel paddock vestito di rosso e pronto a fermarsi, a sorridere, a fare una foto, un autografo nonostante avesse tutto il peso della nazionale dei motori sulle spalle.


Michele non c’è più, c’è ancora, dopodomani ricordiamolo. La sua Rozzano lo fa con una mostra, un annullo filatelico e venerdì e sabato prossimi esponendo la sua Ferrari F1 numero 27. E chi ama la Rossa sa che cosa significa quel numero.

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