
Se ci pensate bene, è arrivato in silenzio. Quasi dall'anonimato. Un'estate di un po' di anni fa, solita rivoluzione dovuta al mercato, nomi famosi in partenza e in arrivo, dall'Empoli sbarcò questo terzino taciturno, molti fatti e poche parole, che nessuno avrebbe immaginato vedere nell'anno dello scudetto spallettiano con la fascia di capitano al braccio. Così come nessuno ne avrebbe fatto a meno la scorsa estate, quando era segnalato più che partente dal binario di Napoli: questa città, è risaputo, sopporta sempre con grande fatica le separazioni, per non parlare di quando i suoi beniamini passano su sponde nemiche. È stato Conte a frenare il malcontento popolare, puntando forte sui due leader azzurri: il capitano appunto, e Kvara. Ha vinto la prima scommessa e perso la seconda.
Diciamolo subito: il Di Lorenzo di quest'anno non è stato quello del tricolore ma nemmeno quello della passata stagione, guida teorica di un gruppo dove ciascuno, in campo e fuori, aveva fatto dell'anarchia uno stile di vita personale. Ha portato avanti però un lavoro di cucitura enorme, rivitalizzando lo spogliatoio, portando sulle spalle il peso di un riscatto difficile da immaginare, diventato poi esaltante con il trascorrere dei mesi. Specchio fedele del suo carattere, un tipo che parla solo quando c'è da parlare, tempra forte di chi è partito dal basso ed è esploso se vogliamo tardi, perché a 24 anni giocava ancora in serie C.
La grande forza di questo terzino roccioso è sempre stata quella di non mollare mai. Ha raggiunto quello che sognava da bambino, emozioni forti che si sta godendo pienamente perché lui soltanto sa quanto ha dovuto sudare per diventare il capitano del Napoli. Amma faticà, il mantra tanto caro al suo allenatore, sembra calzargli a pennello, coniato apposta per lui che pur di migliorare e di giocare ha tradito più di una vocazione. Come quella che aveva da ragazzino, giocare cioè da attaccante e segnare, ma ognuno scrive la propria storia in un tempo che non può essere uguale per tutti.
Nell'opera di ricostruzione del Napoli, sia morale che tecnica, ha avuto un ruolo essenziale, come si conviene a chi indossa la fascia, il suo orgoglio forse più grande. La storia azzurra è piena di leader carismatici, perché la città più che la squadra sente questo incessante bisogno di essere rappresentata dal campione assoluto, dal Masaniello di turno: lo sono stati Juliano, Maradona, Ferrara, Hamsik, Cavani, Insigne, Mertens, gente che esercitava la propria leadership in modo diverso ma sempre autorevole. Come differente è la figura di questo capitano, toscano della Garfagnana, che intanto ha eguagliato Diego con due tricolori: a pensarci bene sembra una rivoluzione culturale perché la guida azzurra è un artigiano del pallone. Un carisma che ha costruito partita dopo partita, vittoria dopo vittoria, avendo la maturità di lasciarsi alle spalle sì uno scudetto e un Europeo vinto con la Nazionale ma soprattutto un'annata di amarezza e di delusioni.
Una tappa tra le 269 (con 18 gol) che gli hanno consegnato un altro prezioso triangolino tricolore sulla maglia azzurra, un vanto per pochi, l'inizio di un nuovo sogno rappresentato dalla visione di quel tris mai riuscito ad alcun capitano.