Metti Andrea Agnelli negli studi di Sky, protagonista di uno speciale botta e risposta lungo novanta minuti. È successo ieri: tanti i temi toccati, ovviamente. Sapendo di essere «tifoso della Juve dalle due ore che precedono la partita alle due successive. Poi però torno a essere un manager». Sei anni di presidenza, dieci trofei e conti in regola: potrebbe bastare e invece no, «perché a me piace innovare. Se crescerà il sistema calcio italiano, crescerà anche la Juventus». Chiamata a vincere, quasi da statuto: «Bisogna avere l'ambizione di farlo, è quello il nostro stile. Io il più duro tra tutti gli Agnelli? Ognuno è fatto a modo proprio.
Oggi però siamo una grande azienda, non viviamo più soltanto nella dimensione ludica di una volta, quando non esistevano i diritti televisivi». Da allora, il calcio è cambiato e non di poco. In più ci si è messa calciopoli: «Nel 2006 la Juve aveva un fatturato inferiore di soli 40 milioni rispetto al Real, oggi siamo decisamente più indietro nonostante si sia saliti a 350. La collettivizzazione dei diritti tv è giusta, ma servirà ripartire diversamente gli introiti. Riformare la Legge Melandri? Se ne sta parlando, magari ne uscirà qualcosa di buono. Bisogna capire che percorso intraprendere per rimanere competitivi a livello internazionale. La via italiana qual è? Serve capacità decisionale: le seconde squadre sono indispensabili, gli stadi di proprietà pure. Ma bisogna pensare anche al format della Champions: ha senso quello attuale, dove i risultati dei gironi sono quasi scontati?». Agnelli a tutto campo, appunto: «Chiedere un aumento di capitale ogni due-tre anni significa non avere gestito un'azienda come si deve: l'obiettivo è autofinanziarsi, rimanendo ai vertici. Il nostro calcio deve vendersi meglio, capire che ci sono mercati inesplorati come quello africano sub-sahariano: dobbiamo arrivarci prima di altri. Ci sono società, come il Chelsea, che hanno sfruttato magnificamente la tecnologia esplosa negli ultimi dieci anni: noi non ne siamo stati capaci e arranchiamo».
Presto che è tardi, insomma. Guardando però al futuro con ottimismo, accogliendo «con favore l'arrivo di capitali esteri», immaginando una Juve che «se manterrà questo gruppo dirigente per i prossimi 5-10 anni, potrà confermarsi al top in Europa». Una Juve che «resta amore e passione», dove «la base italiana è fondamentale e sempre lo sarà. E dove il singolo non può contare più della società stessa. Cedere la proprietà un giorno? Non esiste. Abbiamo il 63% della Juventus e così è, non può venire nessuno. Vendere Pogba? È una situazione non reale al momento. Cosa è Pogba lo dimostra l'Adidas, anteponendolo a una serie di giocatori clamorosi. E adesso abbiamo anche Dybala, che piace molto ai bambini. Nei mercati più lontani, hai bisogno del supereroe da affiancare al marchio. Poi subentrano dinamiche di mercato e la volontà dei giocatori: se uno vuole andare, va.
Una trattativa non dura tre mesi, ma una finestra di sette-otto ore dove devi decidere se cogliere o meno un'opportunità. Vieri era incedibile la sera, il mattino dopo un giocatore dell'Atletico Madrid nonostante il parere dell'avvocato...».
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