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"Favole Verona e Napoli. E l'Avvocato Agnelli..."

Il portiere, 65 anni appena compiuti, tra scudetti e ricordi. "Per lui ero il migliore senza mani. Per tutti Garellik"

"Favole Verona e Napoli. E l'Avvocato Agnelli..."

«Il» Verona (inteso come società Hellas Football Club) ha forse dimenticato Claudio Garella, ma «la» Verona (intesa come tifoseria) non ha mai smesso di sfogliare le gesta del suo portiere con la «k» finale: Garellik. Unico. Irripetibile. Come lo scudetto conquistato dalla città di Romeo e Giulietta nel 1985, pegno d'amore per collezionisti di emozioni. Figurine belle e brutte. Garella ne ha raccolte tante. Chissà se ha completato l'album dei sentimenti.

Garellik osserva il calendario. Non ha voglia di brindare. O forse sì. Ci sarebbero le occasioni addirittura per un triplice cin cin. Per lui, questo di maggio, è un mese da incorniciare: domenica 10 maggio, anniversario dello scudetto vinto con Napoli nel 1987; martedì 12 maggio, celebrazione dello scudetto conquistato col Verona 35 anni fa; sabato 16 maggio, il suo 65esimo compleanno.

Ricordi. Custoditi gelosamente, «ma che nulla hanno a che fare col calcio-business e senz'anima di oggi». Adesso meglio godersi la serenità degli affetti più cari. Nella tranquillità della provincia piemontese, dove ha scelto di trasferirsi da quando il suo vecchio mondo ha preso a orbitare in un universo estraneo. Per Garella un ritorno al passato: nato a Torino, il 16 maggio 1955, cresciuto col «giaguaro» Castellini a fargli da chioccia tra i granata. La prima occasione presa al volo: trasferimento nella Capitale, sponda Lazio. Ma ci arriveremo. Iniziamo dall'uomo.

«Preparato, onesto, fedele alla parola data - così ce lo descrive Leonardo Tortorelli, appassionato presidente della polisportiva «Barracuda» di Torino, club che Garella ha allenato per varie stagioni -. Grazie a lui abbiamo ottenuto una promozione e le sue conoscenze sono state fondamentale per richiamare sui nostri giovani l'attenzione di osservatori di serie A. Claudio ora conduce un'esistenza riservata, ma sono sicuro che sarebbe pronto a rimettersi in gioco». Il profumo dell'erba è inebriante per tutti. Figuriamoci per un portiere. Anche se c'è chi ti volta le spalle. È capitato a tanti. Capiterà ancora. Sensazione dura da metabolizzare. Garella è restio a parlarne. Così non resta che l'amarcord. C'era una volta, il calcio.

«Claudio era eccezionale - narra Osvaldo Bagnoli, il mister del gloria veronese -. Parava ogni pallone, con qualsiasi parte del corpo. I giornalisti ne esaltavano le imprese. Io una volta sbottai: Ma basta con questo Garella!. Ma lo feci non per mancare di rispetto a Claudio, ma per mettere tutta la squadra sul suo stesso piano».

Fatto sta che Garella interveniva perfino in rovesciata, o con il «lato b»: una specie di Higuita, ma scevro da profili clowneschi. Perché Claudio è sempre stato un tipo serio, dentro e fuori il campo. Con la schiena dritta.

«Oggi nei suoi discorsi c'è un velo di malinconia», testimoniano i pochi che lo frequentano. Ma basta un niente per risvegliare le zone di luce. Come il bagliore esaltante di quel 12 maggio di 35 anni, fa quando il Verona venne incoronato sul trono della serie A e Claudio mostrò ai suoi critici (Gianni Brera in primis) quanto fossero infondati i loro giudizi. Quell'anno Garella fu quasi imbattibile. Garellik si rivede nello specchietto retrovisore e il riflesso gli piace: «Ero un portiere controcorrente, diverso dai portieri belli da vedere, ma non meno efficace di loro. Usando i piedi ho interpretato il ruolo in maniera moderna». Vladimiro Caminiti scriveva che «sembrava un panettiere, un pasticciere». Invece Garella brillava nel campionato delle stelle: «I campioni più famosi erano tutti in Italia. Zico, Platini, Falcao, Junior, Rumenigge, Socrates... Ma il numero uno rimaneva lui, Maradona. Sognavo di giocare col più grande, e ci sono riuscito. Allenarsi con lui era uno show. A Genova, durante la seduta di rifinitura pre-partita lo sfidai, Diego non voleva più smettere di battere punizioni. Il resto della squadra era ormai sul pullman, ma lui continuava a stare in campo».

Garella, capace di fare autocritica e ammettere gli errori: «Il modo in cui ruppi col mister Ottavio Bianchi fu sbagliato, e sbagliai anche il 10 settembre '89, quando commisi un fallaccio su Borgonovo del Milan. Berlusconi si arrabbiò, aveva ragione».

Camorra a Napoli? Doping? «Non so neanche cosa siano. Se avessi visto qualcosa non l'avrei mai accettata». Eccolo, il Garella tutto d'un pezzo, il Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento dell'ipocrisia. Per questo ogni mattina può guardarsi allo specchio. A testa alta.

Garella conosce bene l'ambiente del football. Ha imparato, a proprie spese, che la correttezza non sempre è apprezzata. Forse per questo non è rimasto nel, cosiddetto, «giro che conta».

Dopo il corso federale a Coverciano, avrebbe le carte in regola per fare il direttore sportivo o l'allenatore. Ma troppi presidenti preferiscono circondarsi di yes man con la testa girevole, pronti a voltarsi dall'altra parte fingendo di non vedere e non sentire. Insomma, l'opposto di Garella.

«Dopo scudetto e Coppa Italia, col Napoli avremmo potuto fare il bis l'anno successivo - dice il portiere -. Invece perdemmo il campionato sul filo di lana. Ma il Milan di Sacchi lo meritò». Garella capisce che deve fare le valigie. Un addio doloroso con negli occhi due fermo immagine di segno opposto: «La parata più bella, contro il Milan: palla smanacciata sul palo su colpo di testa di Hateley. Il gol più amaro: quello di Butragueño nella gara di ritorno contro il Real Madrid che ci eliminò dalla Coppa dei Campioni. Nel primo tempo facemmo una partita strepitosa, il Real sembrava una squadretta».

Ma Garella non ha rimpianti. È stato infatti tra i protagonisti dell'apoteosi partenopea: «Un'atmosfera favolosa, ben simboleggiata dallo striscione dedicato ai defunti appeso dai tifosi sul muro del cimitero nel giorno dello scudetto: 'Uagliò, cosa vi siete perso!. Geniale. Idem per la risposta dei... defunti: 'Uagliò, ma chi ve l'ha detto che ce lo siamo perso?».

L'altra impresa memorabile Garella l'aveva compiuta due anni prima a Verona: «Bagnoli credeva in noi, l'intera squadra lo seguiva. Senza bisogno di tante parole. Eravamo un gruppo di amici. La sera si usciva insieme. Senza prime donne. Anche se a Pietro Fanna piaceva interpretare e questo ruolo. E noi glielo lasciavamo fare...». Di quella alchimia perfetta Garella fu un elemento essenziale. Alla faccia dei detrattori tanto al chilo: «Chi era a corto di argomenti tirava fuori la storia delle garellate (copyright, Beppe Viola) o di "paperella". La verità è che alla Lazio ero arrivato troppo giovane. Caratterialmente non ero ancora corazzato per pressioni di quel tipo». Senza contare il peso dell'eredità di Felice Pulici, portiere-icona e beniamino dei tifosi biancocelesti.

«Quando mi cedettero in B alla Sampdoria giurai al direttore sportivo della Lazio: tornerò in A e ci resterò a lungo». Promessa mantenuta. Quattro stagioni alla grande difendendo la porta dei blucerchiati, poi il periodo d'oro di Verona. La convocazione in Nazionale sarebbe stato un giusto premio, ma Garella non aveva santi in paradiso.

Due fuoriclasse come Diego Maradona e Gianni Agnelli si accorsero però delle sue parate «sgraziate» (stesso aggettivo usato per il portiere dell'Olanda, Jan Jongbloed). Lui, intanto, è diventato Garellik: «Il soprannome me lo mise un giornalista del quotidiano L'Arena di Verona, ispirandosi ai colpi di clamorosi di Diabolik». Gianni Mura lo battezzò invece «Compare Orso», aggiungendo: «capace però di volare come Batman». «Ma il complimento più bello - ammette - lo ricevetti dall'Avvocato che, col suo umorismo, coniò una definizione passata agli annali: Garella è il miglior portiere del mondo. Senza mani, però. Si riferiva alla mia capacità di saper parare anche con i piedi. Aver meritato una battuta da Gianni Agnelli è importante, significa aver lasciato un segno nel mondo del calcio».

Ma anche Maradona ed Italo Allodi lo stimavano, tanto da caldeggiare il suo acquisto al Napoli di Ferlaino. Era al top della forma, avrebbe meritato una convocazione in Nazionale. Dopo Napoli per Garella iniziò il crepuscolo degli dei: due anni nell'Udinese (con una promozione dalla B alla A) e uno ad Avellino, con l'infortunio e l'addio al calcio a 35 anni.

Da allora promesse, delusioni. Inevitabili per gente come lui, non avvezza ai compromessi. Eppure il richiamo del campo è rimasto sempre suadente, come il canto delle sirene per Ulisse. A lui interessava allenare una squadra, e chi se ne frega se era solo una squadra di dilettanti.

Lo ricordano con affetto i ragazzi del Barracuda, società di prima categoria piemontese dal nome feroce ma dal cuore tenero; tanto diverso dagli squali del calcio professionistico. Predatori da cui Garella si è sempre tenuto alla larga. Continuerà a farlo. Guardandosi ogni mattina allo specchio. A testa alta.

Auguri, mitico Garellik.

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