Dieci anni mondiali

Il 9 luglio 2006 l'Italia sconfisse i fantasmi del presente e del passato. Rigori compresi

Dieci anni mondiali

E chi se la dimentica piú quella notte, la notte di Berlino 2006, la notte dell'ultimo mondiale di calcio vinto da una magnifica ciurma in maglia azzurra, impreziosita dai tanti fuoriclasse ora sbiaditi dai ricordi ma sempre in circolazione (Totti, Buffon, Pirlo, Cannavaro) seguiti da qualche mastino (Gattuso) e involontari eroi (Materazzi) oltre che da un giovanotto, Grosso, improvvisamente salito agli onori con quell'ultimo rigore tirato e messo a segno, con un destro angolato e chirurgico, degno del miglior specialista, e Totti, nel frattempo finito in panchina, stravolto dalla fatica. Lo avevamo scoperto a Dortmund, in un'altra serata colma di magia e di colpi di classe, lungo i tornanti della sfida con la Germania padrona di casa e del pronostico. Era spuntato chissà come al centro dell'area e aveva calciato al volo un raffinato no look di Pirlo per trasformarlo in un bengala azzurro che aveva illuminato tutta l'arena e reso pazzi di gioia i paisá di Germania.

Tutti insieme, esponenti della classe operaia (ve lo ricordate Zaccardo?) e artisti di provata fama (Totti, Del Piero) si ritrovarono agli ordini di un ct in apparenza bisbetico e invece domabile, che aveva puntato la sua missione su una tecnica elementare: trasformare i veleni della vigilia e di Calciopoli negli spinaci di Braccio di ferro, capaci quindi di trasmettere energia purissima alla sua truppa disposta a lanciarsi nel fuoco per lui. Già è lo stesso Marcello Lippi appena protagonista di un altro grande, dignitoso rifiuto (da dt delle nazionali per via del figlio procuratore) dopo quello, altrettanto clamoroso e rumoroso, annunciato nella notte di Berlino, davanti a Napolitano e al ministro Melandri. «Me ne vado e non torno indietro» disse subito dopo la sbornia di baci e abbracci. Lo avevano messo sotto accusa per le convocazioni di Cannavaro e la difesa, con le unghie e con i denti, di Gigi Buffon: uno s'era permesso di parlare bene di Moggi e della sua Juve, l'altro era vagamente chiamato in causa da un giro di scommesse mai provato, mai riscontrato e finito in una bolla di sapone. «Comunque finisca questo mondiale, alla fine, io lascio la panchina» disse a Guido Rossi e ad Abete e tenne il punto fino alla fine come un vero guerriero d'altri tempi.

Nessuno di noi può più dimenticare quella sera. Noi che l'abbiamo vissuta a vario titolo, chi a Berlino in quella tribuna stampa fredda e scomoda, chi nelle curve colorate di tricolore dello stadio olimpico, chi a casa dinanzi alla tv, moltissimi, la stragrande maggioranza, nelle piazze delle città e dei paesi. Era cominciata malissimo ma poi finì in modo splendido regalando al calcio italiano il quarto titolo mondiale e a ciascuno di noi un senso di giustizia riparatrice, del destino che riconosceva antichi e dolorosi torti riservati nel passato.

Quella notte cominciò col rigore beffardo di Zidane reso al suo vecchio sodale Gigi Buffon: la palla pizzicò la traversa e uscì violenta offrendo persino l'illusione di non essere mai entrata. E invece no. Fu proprio quello sberleffo a provocare la gagliarda reazione dell'Italia, una sorta di cooperativa del gol distribuito tra difensori più che tra attaccanti. Materazzi, con una capocciata, pareggiò il conto, Toni sfiorò il raddoppio un paio di volte respinto da una traversa e da una bandierina alzata. E poi in fondo alla notte tenera di Berlino l'epilogo dei rigori. Cinque tiratori scelti, da Pirlo a Grosso, dalla nostra parte, neanche un errore, una sbavatura, una indecisione, un balletto strano, un colloquio guascone col portiere Barthez. Tutti tesi e concentrati, proprio come un plotone d'esecuzione freddo e cinico. Dall'altra parte quattro cecchini francesi, traditi solo da David Trezeguet finito contro una traversa. Decisive le assenze, in quello snodo, di Zidane nel frattempo espulso per la testata sul petto di Materazzi, e di Henry, vinto dai crampi. Noi in tribuna avevamo visto tutto in tv e gridato allo scandalo mentre Gattuso e Buffon strapazzavano l'arbitro argentino spiegandogli cosa era accaduto. Così nacque la moviola in campo, edizione unica sin qui del calcio mondiale, con il quarto uomo pronto a segnalare il fattaccio e a suggerire il rosso per Zinedine testa calda.

Il risultato finale fu una magia unica: la coppa del mondo tra le mani di Fabio Cannavaro.

E sulle prime non ci fece nessun particolare effetto lo sgarbo di Sepp Blatter, presidente della Fifa il quale violentò il cerimoniale rifiutandosi di consegnare personalmente il trofeo al capitano degli azzurri e affidando l'incarico simbolico a uno dei suoi vice. Perché di quella notte ci è rimasto il sapore dolcissimo e negli occhi la corsa disperata di Pirlo e Cannavaro verso Grosso.

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