C'è qualcosa che ha accompagnato storia e vicende di Luisito Suarez: il brillio di un oro che il tempo mai ha intaccato. L'oro della testa, la brillantezza del pensare, il cervello di un vecchio ragazzo che sapeva rapirti con una battuta, un ricordo, la fotografia di un momento. Raccontano che Pibe de oro sia stato il nomignolo affibbiato a Luisito prima di passarlo a Maradona. Un onore che, chissà mai, se Diego ha recepito. Suarez è stato un Pibe de oro, ma poi un Pallone d'oro a dimostrare che l'oro non era solo nei piedi, ma soprattutto nel cervello. Un calciatore non è mai così grande se anche la testa non lo accompagna. Luisito era grande di testa prima ancora che di piede: racchiudeva l'essenzialità feroce di Rivera, l'effervescenza di Platini e mettiamoci il battutismo di Maradona. Ascoltarlo parlare ad 80 anni, con la freschezza di un ragazzo, apriva il cuore: ancora oro puro. Nel calcio era un architetto: quindi meno geniale di Diego, più solido nella costruzione di Rivera e Platini che invece regalavano il tocco in più. Intendiamoci, sapeva far di tutto: ma a Milano si era specializzato nella parte. Stravedeva per Alfredo Di Stefano, ogni tanto raccontava: «Quando vi parlano di Pelè e Maradona credete pure a tutto, ma voi non sapete, non capite cos'era Di Stefano. Solo lui come loro. I moderni tutti dietro». Stiamo parlando del calcio stellare davvero. Non quello al massimo stellato. Luis era una stella e chi ieri lo ha omaggiato sapeva di non sbagliare usando i migliori aggettivi: per l'uomo e per il campione. Un giovanotto che, a 60 anni, faceva ancora vedere a giovani giornalisti la seta del suo piede.
Ne sentiremo tutti la mancanza, anche tra quelli del mercato della milanese via Fauché dove Luis faceva capolino, foss'anche con le stampelle come gli toccò dopo una operazione. Davanti ad una bancarella o con gli amici al bar, partiva un fuoco d'artificio di ricordi e commenti. Stavolta sarà silenzio. Un minuto di silenzio per il campione di tutti.
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