Ibra ricorda un Diavolo che lo avrebbe zittito

Era un grande club, però non avrebbe mai permesso a Ibrahimovic di parlare così

Ibra ricorda un Diavolo che lo avrebbe zittito

La calda sera d'agosto 2010 che segnò il trasferimento di Ibrahimovic dal Barça al Milan, si concluse con una cena al Botafumeiro, ristorante chic della capitale catalana. All'atto di pagare il conto, Adriano Galliani scoprì che la sua carta di credito s'era smagnetizzata e chiese a Ibra d'anticipare la somma. «Non ti preoccupare, non abbiamo finito i soldi per il tuo acquisto!» chiosò Adriano e Zlatan abbozzò un mezzo sorriso. Fu l'inizio di un idillio coltivato per anni, anche durante il tempestoso addio, vissuto dallo svedese quasi come un castigo, e il viaggio a Parigi sulla scia di Thiago Silva. Ricordando quella prima cena e i mesi felici vissuti tra scudetto, supercoppa d'Italia e una Champions interrotta a metà strada, Zlatan ha apostrofato Gazidis con una frase («non è più il Milan di una volta») che è diventata una sorta di schiaffo sul viso dell'ad e del suo azionista lontano.

Ibra è rimasto a quel Milan, l'ultimo trionfo dell'era berlusconiana, prima di declinare verso la stagione del ridimensionamento finanziario, dei dissidi intestini e delle scelte di fede («il Milan ai milanisti») che non pagarono. In quel Milan c'era, oltre alla figura carismatica del suo presidente, una società strutturata, con una linea di comando agile e cortissima, che esercitava un autorevole controllo sulle vicende tecniche e sui comportamenti dei suoi tesserati, presidiando quasi tutti i giorni Milanello, risolvendo ogni piccolo problema. Lo ha raccontato in modo didascalico Alessandro Nesta nei giorni scorsi. Riascoltatelo: «Appena arrivato al Milan, la società mi mise a disposizione un funzionario per cercare l'appartamento e un architetto per arredarla secondo i gusti miei e di mia moglie. Noi calciatori dovevamo solo pensare a giocare».

E se c'era da inseguire un obiettivo, come il tricolore del 2011 poi centrato, beh Adriano Galliani non dormiva la notte per dirottare a Milanello prima Antonio Cassano in rotta con la Samp e poi Van Bommel, il maresciallo del centrocampo, in uscita dal Bayern, decisivo nel sostituire Pirlo alle prese con un grave infortunio muscolare. E se per caso, durante un allenamento, Ibra e Oneyewu se le fossero date di santa ragione, nulla si sarebbe saputo se non mesi dopo perché, come spiegò Galliani alla truppa, «nemmeno i muri qui devono parlare».

Questo era il Milan, rimasto intatto negli occhi e nella testa di Ibra che accettò a gennaio di farvi ritorno convinto da Boban, sospinto «dalla passione» e dalla voglia di dimostrare che a dispetto dell'età, è sempre Zlatan, una specie di semidio calcistico, capace di stregare la concorrenza a 39 anni e di trascinare un plotone di giovanotti alle prime armi verso riscatti inattesi.

È vero: questo è un altro Milan, ereditato da una stagione sventurata cinese, che ha perso l'appeal, il peso politico e forse anche la bussola di un tempo. Ma è anche vero, alla fine, che il Milan di una volta non gli avrebbe permesso di alzare la voce.

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