Italia perdente, ma ce la ricorderemo

Da Cruijff a Bearzot e Sacchi, non tutte le sconfitte sono da dimenticare

Italia perdente, ma ce la ricorderemo

Rigori e lacrime. Ultimi fotogrammi di una notte lunga e, al tempo stesso, perfidamente fulminea. "Rimane la sconfitta e tutto ciò che di bello abbiamo fatto purtroppo non resterà, rimane solo grande delusione. Nessuno ricorderà niente di questa Nazionale che ha dato tutto", Andrea Barzagli strappa l'emozione e sembra l'epitaffio di questa squadra che ormai appartiene al passato. Perdente e non di successo, sostiene Barzagli. Lo sport, a volte, concede gloria a chi non la merita, il calcio vive di leggenda e retorica, l'ultima versione gode di molta propaganda, farlocca. C'è chi nulla ha vinto ma molto pontifica, zemanlandia è il bignami di questa corrente di pensiero. Parole mille, fatti pochi. L'Olanda di Cruyff segnò la svolta in Germania, nel 74, ma venne battuta all'ultimo giro, l'arancia meccanica diventò cicala, così quattro anni dopo, cioè in Argentina, là dove. l'Italia di Bearzot giocò un magnifico football ma finì battuta dagli olandesi. Quella di Sacchi, all'europeo in Inghilterra, si presentò in modo spettacolare ma poi si guardò allo specchio per svanire, comunque lasciando immagine fascinosa.

Sven Goran Eriksson era un perdente di successo, la stampa romana creò e appiccicò questa etichetta per le contrastanti vicende dello svedese tra Lazio, Roma, Fiorentina e Sampdoria, uno scudetto in tutto più coppe varie ma, a prevalere su tutto, una eleganza nei toni e un'astuzia nei contratti.

Conta vincere, questo dice e ribadisce l'almanacco sul quale non risulta la qualità delle prestazioni, ma il numero di gol realizzati, stop, il resto non conta. Si passa alla memoria anche per una sconfitta, le lacrime di Baresi come quelle di Barzagli, mondiale americano, europeo francese, ventidue anni dopo, epilogo simile, ma non uguale perché, come ha detto Buffon, perdere una sfida dopo che gli avversari hanno sbagliato tre rigori su cinque non è immaginabile. Ma va raccontato e ricordato, aumentando l'amarissimo sapore.

Accettare il verdetto, si dice così, per non scappare dalla chiesa e urlare bestemmie al cielo. La sconfitta brucia la pelle, scopre fili nervosi già fragili per superlavoro psicologico, lo sfogo sta nel pianto, crolla l'adrenalina. Lo sport è contesa non esibizione, la favola di De Coubertin serve ad addolcire il bicchiere di veleno, l'importante è vincere, bisogna saper perdere è il titolo di una canzonetta.

Ma è anche vero che, e sono parole sagge di Arrigo Sacchi, l'Italia di Antonio Conte, le sue partite, l'unità del gruppo, dovrebbe insegnarci e servirci ad essere più seri. Non dico come popolo, la demagogia è facile e banale, ma almeno nella quotidianità del football che ha raggiunto, invece, smodate quantità e basse qualità, di prestazioni e di narrazioni. L'Italia a Bordeaux non ha perso. Hanno perso i rigoristi che sono una cosa diversa. Fino a quando è stato il gruppo a gestire, insegnare, dirigere il gioco, allora il valore aggiunto di Conte, i suoi insegnamenti, la sua maniacale lezione sono risultate determinanti. Quando la cronaca, e poi la storia, è stata affidata al singolo, al rigorista, allora è finito il gioco, lo studio, la preparazione, è intervenuto il destino, che non è cinico e baro quando è agevolato dalle buffonate di Zaza e Pellé.

Andrea Barzagli, con lui gli altri azzurri di Conte, sanno che il calcio sfoglia le sue pagine in due secondi. La notte francese non è stata magica. Ma nemmeno tragica o drammatica. La ricorderemo più di tante altre, furbe e false.

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