nostro inviato a Rio de Janeiro
Quella palla del diciannove a diciotto nel primo set è un frammento di rammarico. Capita, anche nella vita, nel lavoro, che ti porti per un po' di tempo sulle spalle le occasioni perdute e sai che sono andate via, sfumate, non ritornano mai. Ci rimastichi sopra perché non erano poi così improbabili, bastava poco, un pizzico di concentrazione o di fortuna, una rotazione appena diversa della mano o un'intuizione più veloce. Di solito si sbaglia per un attimo. Ti viene da chiamarle sliding doors, porte scorrevoli, in realtà è solo il morbo del senso di colpa che pretende la ricostruzione definita di una sconfitta, di un passaggio a vuoto. Non c'è.
La differenza tra ciò che è stato e ciò che poteva essere è sempre un ballo sull'indefinito. Cercare la risposta quadrata è inutile. Daniele Lupo però su questa cosa ci sta rimuginando e anche questo è normale. Passa in fretta e Daniele ha superato incertezze peggiori, con in bilico la vita e la morte. «Avrò un po' di rimpianto per quella palla che non ho messo a terra. Forse avrebbe cambiato la partita». Forse adesso non importa.
Paolo Nicolai si è accontentato solo dopo la fine. «Quando te la sogni tante volte una finale olimpica te la immagini con un finale diverso da quello che è stato. Ma anche così questa medaglia mi piace moltissimo. Anche se è chiaro che quando arrivi a questo punto ti immagini di più. Vuoi di più». Piove a Copacabana, piove sulla sabbia, sullo stadio pieno, sulle canzoni che parlano italiano, come omaggio, come gesto di simpatia. Piove sulla speranza, che a un certo punto sembra un'orma sul terreno. Piove sulla medaglia di argento di Paolo Nicolai e Daniele Lupo, ma non sono lacrime, perché quando hai fatto il possibile non ci sono recriminazioni. Per vincere serviva qualcosa che sfiorava l'impossibile. Ti stai giocando tutto contro i campioni del mondo, a casa loro, su una spiaggia che per i brasiliani è un sacrario, e praticamente non hai nulla da perdere. Quello che puoi fare è cercare di prenderli di sorpresa, di palleggiare sulla loro emozione, sulla paura che prende i favoriti.
Ed è quello che in principio succede. Il Mamute, il Mammuth, Alison Cerrutti e Bruno Oscar Schmidt, detto O Magico partono disorientati. Sono fermi, freddi, incantati. È l'occasione per scappare e chiudere il primo set. Paolo e Daniele ci stanno credendo, e forse è a quel punto che la paura bussa anche a casa loro. La luce di vantaggio si spegne, c'è la forza per un nuovo ultimo strappo, ma è solo un'illusione. Sugli spalti intanto il tifo brasiliano ha smesso di mostrare simpatia e comincia a fischiare e ululare ogni volta che si va in battuta.
Il destino cambia rotta. I brasiliani non sbagliano più nulla, murano tutto e in rimonta si prendono il set. A questo punto viene da sperarci: Lupo e Nicolai sono affezionati allo spareggio, vincono il secondo e magari sprintano a quindici. Ma il Mago e il Mammuth conoscono propensioni e segreti degli italiani. Non si lasciano sorprendere. Daniele e Paolo resistono. Restano attaccati alla partita.
Solo che tutte le carte sono a favore dei brasiliani. È andata.Tokyo è a quattro anni da qui. Ricomincia la fatica. OhOhOh, OhOhOh alegria, alegria canta la torcida brasileira. La notte di Copacabana chiude il sipario. Ormai ha smesso perfino di piovere.
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