È la legge dei più forti S'inchina anche l'uomo saracinesca

Buffon tiene la Juventus in partita con un paio di miracoli e le sue mani sante. Ma si deve arrendere al trio MSN

È la legge dei più forti S'inchina anche l'uomo saracinesca

Se reggi l'urto violento del Barcellona, se rischi di affondare, sotto i colpi di spingarda di Dani Alves o sulla stoccata di Suarez e invece rimani a galla, o sotto il pelo dell'acqua, fino a riprendere il mare aperto della finale, beh devi avere in porta uno come Gigi Buffon che ti salva la vita una, due volte. E che riesce a infondere coraggio anche a chi non ce l'ha. Proprio come ai bei tempi di Duisburg, estate memorabile del 2006, quando viaggiando al fianco di Cannavaro, prima d'incrociare la corazzata tedesca a Dormund, rincuorò la ciurma azzurra a modo suo. «Tanto non mi fanno gol» disse entrando in quella bolgia di stadio e sembrò la "sparata" di uno spaccone.

Fu invece il grido di guerra di un vero condottiero capace di guidare i suoi verso la finale e la coppa del mondo. Di giallo vestito, alla sua tenera età, col capello lucido per il sudore, e l'occhio vivo, Gigi Buffon, come reduce da una seconda giovinezza, scatta come una molla, col braccio di richiamo, a prendere la palletta di Dani Alves che sembra già dentro, a gonfiare il bottino del Barça. E invece no, rimbalza sulla mano aperta di Buffon e s'impenna beffarda. Gli fa spavalda compagnia Barzaglione, un altro reduce dalla campagna di Duisburg, appena rimesso in salute e subito lanciato nella mischia a rendere più sicuri i sentieri battuti da Neymar e Messi, da Iniesta e Jordi Alba che per i primi venti minuti imperversano e comandano il gioco, fino a convincersi d'aver ormai la coppa in pugno, la finale già vinta, inchiodata.

Nessuno del Barça che invece giochicchia e si diverte se ne cura a sufficienza. Loro conoscono a memoria il famoso tiki taka, riveduto e corretto da Luis Enrique, tengono Messi all'ala destra come se non volesse partecipare alla vicenda, paiono quasi alle prese con un torello d'allenamento perché tengono la palla e provocano magari quell'irascibile di Vidal pronto a farsi ammonire come un pivello al fallo numero quattro, ripetuto in modo scellerato sotto gli occhi dell'arbitro turco. Tanto, pensano, prima o poi troviamo il pertugio, prima o poi il triangolo stretto riesce e allora anche Buffon deve inchinarsi.

E invece Buffon resta lì, come un santo protettore, a mettere un'altra manona santa prima che Morata e la Juve tornata a respirare mettano i brividi alla schiena di Luis Enrique e a quella curva colorata di granata e di blu. Perché il blitz di Litchsteiner è una raffica di vento gelido che attraversa l'area catalana e spazza ogni sicurezza: Tevez s'infrange sugli scogli, Morata no, a porta vuota rianima la Juve. È vero, poi c'è anche quella macchia sulla finale, il braccio di Dani Alves, il tentacolo di un polipo avvolto sul collo di Pogba in area che precede di un minuto appena il 2 a 1 e di questo episodio di sicuro parleremo per ore e per giorni fino alla prossima polemica di casa nostra. Buffon resta lì, sicuro e dignitoso, come un vero guardiano a dominare il suo faro, anche quando Suarez spunta feroce e letale a due passi dalla porta, per trasformare in una saetta la respinta sulla sassata di Messi e mettere il fiocco alla quinta coppa dei Campioni della carriera, la quarta in nove anni, che sono poi gli anni migliori della loro vita. Alla fine Buffon, da solo, con quel maglione giallo e le manone sante, non ce la fa e deve inchinarsi come soltanto i fuoriclasse autentici sanno fare. Senza gesti inconsulti, senza strappi al protocollo, senza spargere veleni e sospetti che pure sono frequenti in serate come questa di Berlino.

Con

una semplice smorfia di dolore e di disappunto per questo calcio a volte traditore che gli nega l'ultimo trionfo. La sua Juve esce battuta ma non sconfitta anche dopo la rasoiata del 3-1. E lui è uno dei pochi a saperlo.

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