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Il destino dietro una curva. A Nibali l'oro della sfortuna

Vincenzo in fuga cade a 11 km dal traguardo e finisce in ospedale: "Sono scivolato". Vince Van Avermaet

Il destino dietro una curva. A Nibali l'oro della sfortuna

nostro inviato a Rio de Janeiro

Il marciapiede. Undici chilometri più sotto e più in là il traguardo di Copacabana. Vincenzo a terra. Scosso, tramortito. «Muto. L'ho visto così, non c'è stato bisogno di dire altro» confiderà ct Cassani. La spalla destra pulsa da far urlare, ma Vincenzo resta in silenzio, muto appunto, il vero dolore è un altro. Medaglia persa. Guarda l'asfalto che l'ha tradito, la strada che l'ha fermato e si siede di lato. Ecco. Adesso, solo adesso Vincenzo inizia a pensare a tutto quello che è volato via in quella discesa. «Sono scivolato io» è l'unica indiscrezione che trapela mentre lo trasportano in ospedale per controlli. Forse una frase, forse un pensiero, forse solo la logica evidenza. Più tardi dirà «mi dispiace per i ragazzi...».

La discesa di Vista Chinesa doveva essere la sua torre di lancio verso il cielo, verso la medaglia, verso l'oro perché ct Cassani, durante l'ultimo allenamento di rifinitura l'aveva detto, «se arriva lì con una ventina di secondi di vantaggio a fine discesa, la corsa è decisa». Ora invece il ct dice altro, non può fare altrimenti: «Sapevamo che l'ultima curva era pericolosa, credo sia scivolato, era stata una gara perfetta, tutti i ragazzi erano stati bravissimi e lui era in grande condizione». E tornano in mente le parole degli spagnoli alla vigilia: «Vincenzo proverà la discesa della vita e abbiamo paura di lui perché al contrario del nostro Valverde non ha più nulla da perdere: in fondo quest'anno il giro l'ha vinto, non teme di tornare a casa con niente, può permettersi di rischiare...».

Vincenzo ha rischiato. Ha perso. A terra con lui anche il colombiano Henao. Medaglia d'oro al belga Greg van Avermaet, argento al danese Jakob Fugslang, bronzo che gli basta e avanza e neppure abbozza lo sprint al polacco Rafael Majka. Fa tenerezza e fierezza allo stesso tempo Fabio Aru che ci ha provato fino all'ultimo. Prima accompagnando la gara perfetta del team azzurro, poi fuggendo con Nibali per prendere quel minimo di vantaggio per provare a sognare l'impresa in discesa, quindi lasciando andare, sfinito, il proprio capitano e infine, con il mondo e i sogni di medaglia a terra seduti su un marciapiede, tentando disperatamente un'ultima volta di agganciare un qualcosa che portasse a una medaglia, anche la più piccola. Sarebbe bastata. Niente da fare. Sesto e miglior italiano. Però bene così per il sardo uscito deriso dal Tour.

Piange, lacrime di sconforto e fatica: «Vincenzo si meritava che dessi tutto per lui, se lo merita come uomo e come corridore». E torna in mente il loro Tour.

Già, il Tour de France. Quello in cui Nibali si era vestito da gregario, quello per dirla con ct Cassani in cui «aveva consolidato l'affiatamento proprio con Aru tanto e troppo importante per la spedizione olimpica». Il Tour delle critiche di chi aveva accusato Nibali «di non osare in discesa. Ma che senso avrebbe avuto prendere rischi poche settimane prima dell'olimpiade» si domandava l'altro giorno il suo allenatore, Paolo Slongo. E i rischi Vincenzo li ha presi tutti ieri durante la fuga sul Ghisallo brasiliano, «cosa fai se vedi la medaglia là davanti?» lo difende Cassani. Gara perfetta la sua, perfetta quella di Aru, perfetto Caruso, perfetto Rosa, perfetto De Marchi. Ognuno aveva fatto il suo e i tre italiani davanti a 25 km dall'arrivo ne erano la conferma. Raccontavano di una posizione non capitata bensì conquistata. Non come la Spagna disordinata di Valverde in pessima giornata, non come Froome addormentato e con la testa alla cronometro, tutto era davvero pronto per poter sognare. Era.

E adesso Vincenzo sembra Valentino Rossi a terra che ha perso il mondiale all'ultimo e nel cuore se la prende con se stesso. Sembra l'Italia del calcio che va via di rigore. «E la delusione è moltiplicata per mille, perché avevamo fatto una gara perfetta» dirà il ct. Fanno male queste sue parole, tanto quanto ricordare cosa aveva detto sull'ammiraglia nel giorno dell'ultimo allenamento: «Vedete, qui, in discesa, l'asfalto per colpa della troppa vegetazione non si asciuga mai completamente neppure dopo giorni. Bisognerà fare attenzione...». Troppo tardi, tutto perso. A terra. Sogno infranto, clavicola fratturata.

L'ultimo verdetto.

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