Luis, se un applauso e il dolore più grande raccontano un uomo

Dopo il trionfo, il ricordo della sua piccola e l'elegante omaggio agli interisti sconfitti

Luis, se un applauso e il dolore più grande raccontano un uomo
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«Si vive, si muore, poi il resto si vede». Xana, pensandoci, potrebbe essere il nome di una formula magica, quella per guarire il dolore più grande. Perché si può restare padre senza avere più una figlia, o restare uomo quando tutto sembra insopportabile. Si può vivere la gioia ricordando la tristezza, e guardare il mondo con un occhio diverso. Xana allora è magìa per Luis Enrique, è la sua bambina che la malattia crudele gli ha strappato quando aveva solo 9 anni, la stessa bimba con cui aveva piantato sul campo di Berlino una bandiera del Barcellona il giorno in cui aveva guidato la sua squadra a vincere una Champions League contro la Juventus: dieci anni prima di sabato, sempre contro un'italiana. Le coppe ora sono due, e il resto intanto è cambiato.

Il Vincitore della notte di Monaco ha reso felice uno sceicco, ma non scambierebbe nessuna ricchezza possibile con la fierezza con cui vive adesso, ora e da sei anni: «Non ho bisogno di vincere una Champions per ricordarmi di lei». I suoi tifosi di Parigi gli hanno dedicato uno striscione con il disegno di quel momento così familiare, «e mi ha fatto molto piacere. Però Xana è sempre con noi: ci guida sempre, soprattutto quando si perde, nei momenti in cui le cose non vanno bene. È la nostra ispirazione. Perché in fondo si vive, si muore, poi il resto si vede». Come si fa a non far scorrere una lacrima davanti a un uomo dall'espressione così duramente tenera, mentre ricorda che vincere non è così importante. E neppure l'unica cosa che conta.

Sabato dunque: i suoi ragazzi alzano la Coppa saltando impazziti, lui sorride per un attimo e poi si gira subito per applaudire i vinti, con una logica pensiero-azione che vale il dribbling di un fuoriclasse: «Voglio sottolineare una scena molto difficile da vedere dopo una finale e voglio elogiare l'Inter: tutto lo staff, tutti i giocatori, sono rimasti lì fino a quando non abbiamo finito di festeggiare, con rispetto. Una cosa da far vedere ai bambini per insegnare che nella vita e nel calcio si vince e si perde. Per questo li ho applauditi: bisogna saper perdere in questo mondo dove ci sono persone che sanno solo vincere». Non lui, per esempio. O forse una volta, da calciatore asturiano feroce (3 volte la Liga più varie Coppe in bacheca) che un giorno si scontrò, Mondiale 1994, con il gomito di Mauro Tassotti: «Non volevo colpirlo in faccia, per anni non mi ha perdonato - disse un giorno l'azzurro -. Ci sono riuscito quando lui allenava la Roma». Che poi, Roma, è il crocevia di quello che è successo dopo da allenatore e non solo: ha vinto tanto, ha sofferto tanto, ma è rimasto sempre in piedi con orgoglio. Nella gioia e nel dolore.

Gianmario Piscitella nel 2012 era un giocatore della Primavera giallorossa: «Un giorno mi dissero che dovevo allenarmi con i grandi, pensavo finisse lì. Invece lui mi convocò per Roma-Inter: vincemmo 4-0 e mi fece entrare l'ultimo quarto d'ora. Tre giorni dopo c'era il Catania di Papu Gomez, mi chiuse in uno stanzino: Non importa se ti alleni con noi da poco: sarai titolare e te lo meriti.

Se ti serve qualcosa, ti giri verso la panchina e io ci sono». Gli sarò grato per sempre». Alla fine di quell'anno Luis Enrique si dimise e lo rivelò per primi ai giocatori seduti con lui in mezzo al campo. Il resto è stato dolore e successo. Perché poi, alla fine, si vede.

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